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La morte e la fanciulla (Roman Polanski, 1995)
genere: Thriller

In una notte di tempesta da qualche parte nel Sudamerica, nell’uomo giunto per caso alla sua dimora, una donna riconosce l’aguzzino che l’ha torturata e violentata negli anni della dittatura militare.
Mentre a Venezia è in concorso il suo “Carnage”, viene naturale paragonare quest’ultimo lavoro di Roman Polanski – un dramma borghese dalla struttura marcatamente teatrale, racchiuso com’è tra quattro mura per tutta la sua durata – a “La morte e la fanciulla”, film a torto considerato minore tra quelli del regista polacco. Dall’omonima pièce teatrale di Ariel Dorfman Polanski astrae la storia da qualsiasi riferimento strettamente politico per concentrarsi – lui che la dittatura l’ha vissuta sulla pelle – su ciò che più lo ossessiona dall’inizio della sua carriera: le cadute e le zone d’ombra della psiche, naturali o indotte, da cui deriva invariabilmente quel gioco al massacro che si instaura in ogni relazione sociale polanskiana, da “Cul de sac” in poi. Il tutto è costruito con una costruzione della tensione a tratti mirabile, da manuale del thriller (che Polanski conosce a memoria), nonostante una sceneggiatura verbosa che tradisce l’impalcatura da palcoscenico. Sigourney Weaver magnifica belva ferita che dà dei punti anche a Ben Kingsley. “La morte e la fanciulla” è un’opera di Franz Schubert.

The Game (David Fincher, 1997)
genere: Thriller

Come regalo per il suo 48° compleanno, un cinico e ricchissimo uomo d’affari riceve dal fratello una tessera per partecipare a un complicato e affascinante gioco di società organizzato dalla misteriosa società CRS.
A David Fincher non fa difetto l’ambizione: il suo terzo film, successivo all’exploit di “Se7en”, è un apparente thriller che maschera una labirintica riflessione sull’arte della finzione, sui metodi attraverso cui viene esercitata e soprattutto sulle reazioni che genera in coloro che si lasciano sedurre dal piacere del richiamo dell’infanzia attraverso il ritorno alla dimensione ludica. Persino il glaciale Nicholas Van Orton è ossessionato da immagini ricorrenti del proprio passato ed è questa l’unica motivazione che lo spinge – lui che “detesta le sorprese” – a non rovesciare immediatamente il tavolo (“Non neghi che la cosa la attrae”, osserva con acutezza l’uomo della CRS). Va da sé che l’intero apparato organizzativo della Consumer Recreation Services altro non è che la miniatura di Hollywood stessa, raffigurata da Fincher con sottile ironia apocalittica, aiutato dalla sceneggiatura (di John D. Brancato e Michael Ferris) che bene fa a non impelagarsi in puntute spiegazioni di ogni perché e percome. (Sin troppo ovvia l’osservazione che “to play” in inglese vuol dire sia “giocare” che “recitare”). Ai giocatori, come agli spettatori, piace essere ingannati. In una versione ancora più gelida e viscida di Gordon Gekko, Michael Douglas (e il suo ottimo doppiatore italiano Oreste Rizzini) è infallibile; si fa apprezzare anche la cronenberghiana Deborah Unger.

Out of Sight (Steven Soderbergh, 1998)
genere: Thriller

Un rapinatore gentiluomo appena evaso di galera e una bella poliziotta fanno conoscenza nel bagagliaio dell’auto di lei guidata dal complice di lui; e – pensate un po’ – si piacciono.
Il curioso thriller rosa che nel 1998 rilanciò la carriera di Steven Soderbergh, del quale si erano in pratica perse le tracce a quasi dieci anni dal clamoroso exploit all’esordio di “Sesso, bugie & Videotape”. Sotto la patinata confezione di poliziesco convenzionale con un personaggio principale alla Cary Grant cucito su misura del neo-divo George Clooney, reduce dai trionfi televisivi di “E.R.”, è un film sostanzialmente classico ma minato all’interno dall’insana passione del regista per la destrutturazione in tutte le sue forme, da quella temporale (già da qualche anno prerogativa del neo-noir) a quella, più sottile e sfiziosa, tipicamente soderberghiana che consiste nel riscrivere la grammatica del genere ornandola con divagazioni, digressioni sul cinema anni ‘70, impagabili momenti black-slapstick (il ladro obeso e beota che si uccide inciampando su un gradino è una perla), schermaglie alla Billy Wilder (ottimo adattamento di Scott Frank ad un precedente romanzo di Elmore Leonard). Perciò è gradevole per vari palati, compresi quelli degli esteti che potranno ammirare le rotondità di una J.Lo. ancora lungi dal diventare un’icona fashion. Ammantato di un fascino discretamente ammaliante che poi è quello, storico e inoffuscabile, di Hollywood stessa; memorabile scena d’amore Lopez-Clooney. Divertiti cammei di Michael Keaton e Samuel L. Jackson, non accreditati.

Il tocco del male (Gregory Hoblit, 1998)
genere: Thriller

Il detective John Hobbes arresta e fa condannare a morte il serial killer, che prima di morire gli sussurra una frase in aramaico e gli dà un indizio incomprensibile. Qualche giorno dopo, i delitti riprendono a fioccare…
Uno dei primi e più felici esempi di thriller satanico, sotto-genere che si diffuse a macchia d’olio a fine anni ’90, quando il cambio di millennio autorizzava e faceva da detonatore alle paure più ancestrali. C’è un Denzel Washington di efficacia prussiana, un regista (Gregory Hoblit, già segnalatosi due anni prima con l’apprezzabile “Schegge di paura”) che conosce la materia e la governa senza effettacci, un buonissimo cast di contorno (in cui spicca ovviamente John Goodman). Il copione e il tono generale non si lasciano travolgere dal soprannaturale ma si mantengono razionali e – per quanto si stia comunque parlando di un poliziesco in cui il colpevole è un Angelo Sterminatore – persino credibili. Se da un lato è avvincente la caccia a un serial killer praticamente impossibile da sconfiggere (a meno che…), dall’altro bisogna comunque ammettere che lo sceneggiatore Nicholas Kazan (figlio di Elia) ha avuto le mani parecchio libere. Soundtrack più che pregevole con “Time is on my side” e “Sympathy for the Devil” dei Rolling Stones.

Il giocatore (John Dahl, 1998)
genere: Thriller

A New York il giovane Mike, studente di giurisprudenza a tempo perso, è un asso del Texas Hold’em, ma una bruciante sconfitta contro un bandito della mafia russa lo porta a chiudere col poker. Ma, com’è noto, è il poker che non ha chiuso con lui.
Piccolo urban thriller assurto negli anni al rango di cult-movie per il 99% dei giocatori mondiali di Texas Hold’em, la spettacolare variante americana del poker che in poco tempo è diventata il gioco di carte più praticato del pianeta. Nel 1998, specialmente in Italia, era noto a pochissimi, e questo spiega una certa ingenuità e didascalismo che oggi farebbero sorridere i puristi (come ad esempio il mancato utilizzo degli appropriati termini tecnici in inglese: il river è la “quinta carta”, “check” viene tradotto con il classico “parola”). La regia è di John Dahl, cineasta di medio-piccolo cabotaggio riciclatosi negli ultimi anni nel mondo dei serial televisivi; la sceneggiatura, mediocre, è firmata da Brian Koppelman e David Levien. “Il giocatore” (traduzione dostoevskiana dell’originale “Rounders”) conta qualcosa solo per l’appassionata rappresentazione del sottobosco pokeristico (ma guai a parlare di gioco d’azzardo), evidente negli omaggi al grande Johnny Chan o nel continuo e sperticato uso di citazioni (“Se nella prima mezz’ora al tavolo non capisci chi è il pollo, vuol dire che il pollo sei tu”, “La vita si gioca in un colpo solo, il resto è attesa”, ecc.). Un cast di alto livello in cui si distingue l’inusuale pacatezza di John Turturro, mentre il sommo John Malkovich cade nel macchiettone. Il poker è un gioco d’attesa e si possono aspettare anche anni: qualche settimana fa Erik Seidel, il giocatore sconfitto da Chan nella mano finale del Main Event delle World Series 1988 che Matt Damon rivede in continuazione, è diventato il pokerista ad aver vinto più soldi nella storia del Texas Hold’em dal vivo.

The Others (Alejandro Amenabar, 2001)
genere: Thriller

A Jersey, isoletta nel canale della Manica, vivono in una magione sontuosa e decadente Grace Stewart e i suoi due bambini fotosensibili, affetti cioè da una rara malattia che impedisce loro di essere esposti alla luce del sole. Da qualche tempo i tre avvertono strane e inspiegabili presenze, mentre arrivano, inattesi, tre nuovi domestici.
Uno dei migliori thriller dello scorso decennio, firmato dal cileno Alejandro Amenàbar (già autore dell’ottimo “Abre los ojos”) con l’importante contributo degli allora coniugi Cruise: Tom alla produzione, Nicole Kidman come protagonista. Ai posteri è stato tramandato il celebre colpo di scena finale, uno dei più famosi cambi di prospettiva della storia del genere (anche se non è del tutto originale), ma merita altrettanta considerazione tutto ciò che c’è prima: una trama impeccabile, scandita da una tensione a volte insostenibile, in cui giganteggia una Nicole Kidman mai più così brava e hitchcockiana sin dal nome del suo personaggio, Grace Stewart (ovvero nome di battesimo femminile e cognome maschile degli interpreti de “La finestra sul cortile”). Esaltata da un impianto scenico di prim’ordine (si segnala la stupenda fotografia di Javier Aguirresarobe) e da una recitazione perfettamente funzionale al racconto, che aggiunge cioè angoscia all’angoscia (e sono bravi perfino i due bambini James Bentley e Alakina Mann), non subisce il minimo cedimento sino alla fine. Thriller un po’ di maniera, ma di gran classe.

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