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(foto fonte web)
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Scrittori, storici, intellettuali e gente comune firmatari della proposta

Senza dubbio non esiste alcun individuo che, almeno una volta nella vita, non si sia chiesto perché spesso ingiustizie e mancate verità trionfino piuttosto che essere spazzate via dal giudice di turno. La domanda si fa più assillante quando l’individuo in questione vive in un Paese che conta decine di stragi e ancor più di omicidi politici con giudici, giornalisti e sindacalisti vittime.

In realtà, la risposta alla domanda posta è semplice, forse troppo: la verità esiste ed è stata spesso racchiusa in lettere, veline e documenti più o meno riservati. La verità è semplice ma il problema è che non è accessibile.

E’ questo il tema posto da intellettuali, storici, giornalisti e scrittori in una lettera indirizzata al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e al Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Da circa tre anni, sono tanti i personaggi di spicco della cultura italiana che hanno interrogato il governo di turno invogliandolo a promuovere una legge in grado di concedere l’apertura degli archivi prima della scadenza dei trent’anni dal fatto accaduto, attualmente previsti come periodo in cui vige il segreto di Stato.

In pratica, la legge prevede che lo Stato stesso possa decidere quali documenti indicare come non consultabili in quanto sotto segreto. Dietro le quinte di una richiesta apparentemente a uso e consumo di storici e giornalisti per ottenere quanto più materiale possibile per la stesura di libri e articoli, si nascondono invece ragioni profonde e di estrema attualità.

La più urgente, è sorta (per l’ennesima volta) all’indomani della sentenza assolutrice nei confronti di uomini legati ai servizi segreti e ad ambienti estremisti di destra, accusati di aver ordinato, progettato e compiuto materialmente la strage di Brescia, in Piazza della Loggia, il 28 maggio 1974. Pensare che i documenti che hanno portato alla loro assoluzione potranno essere visionabili soltanto fra trent’anni, apre degli scenari e degli interrogativi non da poco.

Il più immediato è il pericolo di non riuscire a ottenere una verità utile alla punizione dei principali responsabili ancora vivi; in secondo luogo, è forte il pericolo di un ribaltamento dei fatti fino ad ora ipotizzati ma mai accertati, ovvero alla connivenza fra pezzi deviati dello Stato italiano e organizzazioni neofasciste. Il timore di non avere la speranza di una verità giudiziaria e una verità storica, è motivo di angoscia per i familiari delle vittime e per tutti coloro che credono nella forza della giustizia.

Eppure, la questione degli archivi parte da lontano. L’attuale legge che regola la consultazione dei documenti, la 124/2007 su cui la Corte Costituzionale si è pronunciata per l’ultima volta nel 2009, prevede innanzitutto la possibilità di secretare documenti fino a trent’anni; inoltre, concede al Parlamento (attraverso l’operato del Copasir) la decisione su quali documenti apporre il segreto; infine, negli ultimi mesi si è più volte discusso sulla volontà di reiterare il segreto anche oltre i trent’anni previsti.

Il problema è che esistono molteplici fatti, situazioni, vicende e storie che sono collaterali ai grandi misteri italiani. Principalmente, è proprio lì il veto più forte del segreto perché, se è vero che “il diavolo è nei dettagli” allora queste vicende, che appaiono lontane, acquistano una certa rilevanza. Ma la discussione relativa agli archivi non si limita alla polemica di questi giorni.

Si tratta invece di una materia ben più complessa. Coesistono in Italia diversi ostacoli alla ricerca della verità. A Napoli, ad esempio, la situazione degli Archivi della Procura della Repubblica è stata oggetto di una recente inchiesta che rivela edifici spesso inagibili, documenti sparsi in più luoghi all’interno della stessa città e spesso difficoltà burocratiche e tempi lunghi per acquisire documenti utili a indagini private.

A questa situazione si aggiunge la tempistica, attualmente prevista per il passaggio dei carteggi dagli Archivi delle Procure agli Archivi di Stato, che va da un minimo di quarant’anni a un massimo di sessanta, a seconda dei casi, che devono trascorrere dal fatto avvenuto.

Se nello specifico è il segreto di Stato l’ostacolo più grande alle indagini sui piccoli e i grandi misteri italiani, nel complesso anche i tempi burocratici appaiono quindi come un limite notevole alla “ricerca” intesa in senso lato.

La questione degli archivi, in generale, diventa così un problema che si colloca all’interno di quel meccanismo che, se reso più flessibile, aiuterebbe a cancellare l’idea di uno Stato inteso come istituzione che cerca di nascondere, occultare e ostacolare la ricerca della verità.

L’accesso ai documenti che sono parte della nostra storia è dunque il primo passo da compiere, figlio di quel concetto di trasparenza necessario per l’edificazione di uno Stato fondato sulla fiducia reciproca fra governanti e cittadini, base della democrazia.

di Pasquale Ragone

(Articolo tratto dal settimanale “International Post”, 6.12.2010)