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Negli uffici della Procura antimafia di Palermo e in quella di Caltanissetta si respira una strana aria. I meccanismi che hanno portato alla morte di Falcone e Borsellino vedono una fase nuova e anche piuttosto interessante, senz’altro in grado di delineare le responsabilità di chi ha agito.

Si tratta di indagini in continua evoluzione, tanto da consegnare all’opinione pubblica i primi punti fermi. Le notizie più importanti che giungono in queste ore attengono all’iscrizione, sul registro degli indagati, di nuovi nomi in merito alla morte di Paolo Borsellino.

Si tratta di Maurizio Costa, quarantaseienne palermitano del quartiere Sperone già condannato per mafia e droga, meccanico che avrebbe addirittura riparato l’auto sulla quale venne posizionata la bomba che assassinò il giudice. Dalle parole del pentito Gaspare Spatuzza si riesce ad apprendere, nei dettagli, la dinamica dei fatti.

Appena pochi giorni prima dell’attentato a Borsellino, Costa sarebbe stato avvicinato da alcuni uomini del clan di Brancaccio, fra i quali Gaspare Spatuzza e Agostino Trombetta (anche quest’ultimo pentito di mafia che conferma la versione del primo), chiedendo a Costa di recarsi in un garage per riparare i freni della Fiat 126 destinata all’attentato.

Per l’affare sarebbe stata consegnata a Costa la cifra di lire centomila per l’acquisto dei pezzi utili alla riparazione. Costa era all’epoca uno dei cosiddetti “disponibili”, cioè coloro che pur non essendo affiliati ai clan mafiosi si rendevano disponibili, appunto, a eseguire lavori di manovalanza secondo quanto richiesto.

Dalle parole di Spatuzza emerge dunque che i lavori sulla 126 sarebbero stati effettuati sul posto, senza mai spostare l’auto, ma soprattutto che Costa non sarebbe stato al corrente dell’utilizzo successivo della macchina da riparare scongiurando per lui l’ipotesi di aver partecipato attivamente e volontariamente alla strage di Via D’Amelio.

Tutt’altro che tranquilla è invece la posizione di Salvo Madonia, storico boss mafioso figlio di Francesco Madonia. Nelle stesse ore durante le quali si indaga per la morte di Borsellino spuntano altre verità in merito alla morte del giudice Giovanni Falcone. Ancora una volta è Spatuzza a parlare ma stavolta incrociando le proprie affermazioni con quanto riferito in separata sede da Giovanni Brusca, altro storico collaboratore di giustizia.

Salvo Madonia è già in carcere dal 1991 ma soltanto oggi, dopo più di vent’anni, emerge il suo possibile ruolo nell’ambito della preparazione della Strage di Capaci. Madonia sarebbe stato infatti indicato come uno degli uomini che al fianco di Totò Riina pianificò la morte di Falcone partecipando a una delle riunioni mafiose utili a stabilire le modalità dell’attentato.

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Le indagini che da mesi si susseguono per i fatti suindicati sono destinate a riscrivere (o a scrivere per essere più precisi) la verità sulle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Ma il dato che maggiormente spicca dal lavoro incrociato fra la Procura di Caltanissetta e la Procura di Palermo e che in queste ore fa notizia è la sola presenza della mafia dietro gli attentati ai due giudici.

Brusca, Spatuzza, Costa, Madonia: sono tutti nomi legati ai clan mafiosi, tutt’altro che uomini dello Stato pagati per uccidere. Si delinea così quel che poco profeticamente potremmo indicare come l’uscita definitiva dei servizi segreti dalle suddette indagini. Nessun uomo del Sisde avrebbe mai provveduto alla manutenzione della 126 e tantomeno al posizionamento della bomba, così come nessun uomo del Sisde avrebbe mai premuto il pulsante per far esplodere le bombe.

Le indiscrezioni che giungono dalle procure competenti sono chiare: sarà chiesta l’archiviazione per la posizione dell’ex funzionario del Sisde Lorenzo Narracci, accusato di essere coinvolto nei fatti citati. Anche i mandanti sarebbero riconducibili ai clan mafiosi capeggiati da Totò Riina, uomo intenzionato a uccidere prima che Falcone e Borsellino potessero arrivare a nomi importanti, a collegamenti troppo arditi per l’epoca e forse anche per i nostri tempi.

Dunque mandanti ed esecutori sarebbero stati ormai individuati e le suddette procure sono ormai a un passo dall’ottenere la revisione dei processi su Capaci e Via D’Amelio.

Eppure il timore è che qualcosa possa sfuggire dalle carte; il timore è che qualcosa di non detto possa restare addirittura incompiuto, senza giustizia. Nell’ultimo periodo di vita, Borsellino spesso ripeteva che i veri assassini, coloro che volevano ucciderlo, non erano i mafiosi ma addirittura parlava di “colleghi”, uomini all’interno della stessa Procura di Palermo e più generalmente all’interno dello Stato. Forse esiste una verità più sottile che ancora non si conosce. Probabilmente si arriverà un giorno a indicare la mafia come l’unica a volere e ad agire per la morte dei due giudici.

La verità processuale ci consegnerà nomi e cognomi ma forse quelle “colpe in più” nessuno ce le racconterà e saremo costretti, ancora una volta come prassi in Italia, a doverne sentire l’odore ma senza averla mai dinanzi.

di Pasquale Ragone

 (Articolo tratto dal settimanale “International Post”, 16.1.2012)