(foto fonte web)

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E’ ancora lontana la parola “fine” dalla triste vicenda che il 27 giugno 1980 ha portato alla morte di ottantuno italiani nei cieli di Ustica? Dell’esplosione del Dc-9 Itavia si torna a parlare prepotentemente negli ultimi tempi perché passi concreti sono stati mossi nella direzione della verità.

Per la prima volta dopo più di trent’anni si inizia a fare luce su uno dei tanti enigmi che hanno avvolto e che purtroppo ancora avvolgono l’Italia. In diverse occasioni abbiamo mosso dubbi e perplessità circa la decisione del Tribunale di Palermo il quale aveva accordato l’indennizzo per la cifra di cento milioni euro ai familiari delle vittime.

Se da una parte tale sentenza risultava un primo passo deciso verso il riconoscimento di un torto da parte dei ministeri della Difesa e del Trasporto (chiamati a pagare la cifra) dall’altra il timore è che fosse l’ennesimo tentativo di chiudere una vicenda che certamente nessun indennizzo potrà mai risolvere. Grazie alle motivazioni della sentenza oggi rese pubbliche, sappiamo finalmente cosa e chi avrebbe portato alla distruzione del Dc-9.

Gli avvocati delle vittime, Alfredo Galasso e Davide Osnato, hanno congiuntamente informato l’opinione pubblica che siamo a un punto di non ritorno. E’ possibile leggere nella sentenza come l’esplosione dell’aereo di linea non sia stato causato da una bomba presente a bordo.

Gli elementi esaminati non consentono di supportare l’idea che la deflagrazione nei cieli di Ustica sia frutto di un attentato premeditato. Piuttosto le origini sono da ricercare in qualcosa di più sottile e da sempre palesato dai media: responsabilità militari. Sono principalmente due le ipotesi esposte dai magistrati. Vediamo quali.

Nella prima ricostruzione si suppone che uno dei due presunti caccia si sarebbe posto dietro la scia del Dc-9 così da non essere rilevato dai radar nemici. I caccia che invece inseguivano il mezzo militare nascostosi dietro l’aereo di linea avrebbero lasciato partire un missile che spezza l’aereo in due tronconi causandone la caduta in mare.

La seconda ipotesi vuole invece che quel maledetto giorno il Dc-9, ancora una volta affiancato da un caccia intento a nascondersi dal radar nemico, sia stato inavvertitamente toccato dall’aereo militare o da più aerei, ottenendo il medesimo risultato della prima ipotesi.

Nonostante siamo dinanzi a due teorie ben distinte, sussistono però dati oggettivi che è possibile rilevare nell’analisi della sentenza dei giudici. Innanzitutto la dinamica. Ai magistrati appare chiaro che a causare l’esplosione del Dc-9 siano stati più aerei in quel momento sulla stessa rotta nei cieli di Ustica.

Le dinamiche paventate mettono in luce una vera e propria lotta fra i caccia, tutt’altro che restii a coinvolgere un aereo di linea che certamente nulla aveva a che fare con le operazioni militari in corso. Il secondo dato oggettivo è la presunta involontarietà, da parte degli aerei militari, a causare l’esplosione in volo dell’aereo di linea.

Tuttavia coinvolgere un Dc-9 in operazioni militari fra caccia nemici è già di per sé un atto volontario che può portare a conseguenze devastanti così come poi purtroppo è avvenuto. In tal caso cadrebbe del tutto il concetto di involontarietà e dunque aumentando le responsabilità di chi partecipò all’azione.

A tal proposito, chi ha da più trent’anni la responsabilità di quanto avvenuto a Ustica? La sentenza non è in grado di giungere ai nomi. Certamente l’Aeronautica militare italiana ha coperto i responsabili della strage e da qui nasce la decisione dei giudici di addebitare ai ministeri della Difesa e dei Trasporti l’onere di indennizzare i familiari delle vittime.

Le parole più dure in tema sono quelle espresse dall’avvocato Osnato secondo il quale il prossimo passo sarà di agire al Parlamento europeo chiedendo di “scardinare segreti di Stato italiani, francesi e Nato”.

Sembra giunta l’ora della verità, l’ora di rendere giustizia a un popolo, quello italiano, da decenni massacrato e umiliato dal cosiddetto “segreto di Stato”.

di Pasquale Ragone

(Articolo tratto dal settimanale “International Post”, 3.10.2011)