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15 dicembre 2012, all’ospedale di Padova i medici accertano la morte del detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il “serial killer delle vecchiette”. L’uomo era stato trovato il giorno prima senza vita, apparentemente suicida ( l’avvocato Faraon nutre seri dubbi circa l’intenzione del proprio assistito di togliersi la vita), nella sua cella del carcere di Padova.

Condannato a 5 ergastoli per altrettanti omicidi di anziane vittime in Puglia, commessi tra il 1995 e il 1997, Sebai,  reo confesso di almeno 14 omicidi, non è stato mai ascoltato o, meglio, creduto. “Sono colpevole, ho ucciso sette donne”, queste sono alcune delle lapidarie parole con cui Mohammed Ezzedine Sebai accusava se stesso di alcuni efferati delitti, non riconosciuti a suo carico, che andrebbero a sommarsi agli altri per cui era stato già precedentemente condannato.

In particolare, tre sono gli omicidi che mancherebbero all’appello delle sue condanne  e di cui afferma con forza la paternità: gli omicidi di Celeste Commessati, Grazia Montemurro e Pasqua Ludovico, avvenuti, rispettivamente, a Castellaneta, Massafra e Palagiano. Vani i tentativi di far riaprire le indagini sui tre omicidi che negli anni novanta portarono la Puglia alla ribalta delle cronache nazionali.

Il tunisino fu sottoposto a fermo alla stazione di Palagianello, centro poco lontano da Taranto, mentre si apprestava a prendere un treno che l’avrebbe portato lontano, riconosciuto da una bambina che lo aveva visto in casa della sua ultima vittima, Lucia Nico, 75 anni, trucidata in casa nei pressi di Palagianello. La piccola, vicina di casa dell’anziana donna, si affacciò sull’uscio dell’abitazione a piano terra e notò subito l’uomo.

Tra il 1996 e il 1997 furono una ventina le vittime. In genere il serial killer agiva contro anziane sole, abitanti al piano terra e le sgozzava con un coltello da cucina o da sub, portando via piccoli bottini e, in altre occasioni, non prendendo nulla. Lasciava a soqquadro la casa forse per depistare. “Io ho sbagliato e sto pagando e sono pronto a pagare qualsiasi altra pena, l’importante per me è scagionare questi detenuti” diceva durante la reclusione a Milano.

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Si, perché, come ad esempio per il delitto dell’anziana Pasqua Ludovico, ma anche per altri delitti irrisolti del periodo, i tribunali italiani processarono e condannarono i “colpevoli”, in alcuni casi anche a seguito di confessione. Una testimonianza diretta arriva dal noto scrittore italiano Donato Carrisi il quale ricorda il periodo in cui si avvicinava alla professione di avvocato presso uno studio di Castellanata.

Trovandosi impegnato nel delitto Ludovico, dovette difendere due giovani fratellastri trentenni Vincenzo Faiuolo e Francesco Orlandi; due sagome che passavano le giornate guardando cartoni animati e bevendo fiumi di birra. Lo scrittore rammenta come i due siano rimasti impigliati nelle maglie della giustizia: << io credo che ci siano molte falle nelle indagini. Il Pm non volle credere fin dall’inizio alla confessione del serial killer tunisino>>.

Un dettaglio da non sottovalutare nella storia è il ruolo di quel Pm che dieci anni prima aveva mandato in galera i due fratellastri. << disse che i due avevano ucciso Pasqua Ludovico mentre rientrava dall’ufficio postale. La donna fu trovata cadavere qualche ora dopo, con le pantofole ai piedi. Era andata a prendere la pensione in ciabatte? Difficile sostenerlo>>. Da qui in poi saranno forgiate nuove tesi che potranno meglio calzare sulla tesi accusatoria nei confronti dei due imputati; numerosi i processi che porteranno ad una verità giudiziaria secondo Carrisi poco credibile.

Per quel delitto il tunisino reo confesso fu assolto fino in Cassazione e per i due fratellastri scatto la condanna definitiva. Ad oggi Orlandi è in semilibertà, l’altro, Faiuolo, risulta essere ancora detenuto. Inutile forse raccontare i numerosi tentativi di suicidio organizzati dai due durante i lunghi anni di permanenza in carcere. La storia è diversa per Vincenzo Donvito che invece riusci nell’intento di togliersi la vita nel 2005 a seguito della condanna di colpevolezza per un altro omicidio del filone pugliese; quello ai danni di Celeste Commessatti.

Donvito fino al giorno della sua morte non smise mai di proclamarsi innocente, compiendo l’insano gesto esclusivamente per liberarsi. Sebai affermò con forza, anche in quella  circostanza, di essere lui la mano che uccise selvaggiamente la Commessatti, ma, come nel caso precedente, fu quasi totalmente ignorato.

Donato Carrisi evidenzia come questa sia una storia tipicamente italiana, in cui la mancata suddivisione delle carriere tra magistrati giudicanti e inquirenti porti molto spesso a errori grossolani (condannare da giudicante il tunisino Sebai avrebbe significato contraddire tutto il lavoro svolto da inquirente), rallentamenti nell’amministrazione della giustizia ma, ancor peggio, toccare  il fondo privando individui innocenti del bene più prezioso, la libertà.

di Alberto Bonomo