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Tu chiamala, se vuoi, ecomafia. Che si utilizzi questo neologismo o che si parli di crimini contro l’ambiente, si tratta di un fenomeno in rapida ascesa quello che vede le organizzazioni mafiose guadagnare denaro danneggiando il territorio. Secondo Legambiente, il giro d’affari della malavita  supera i 23 miliardi di euro all’anno e comprende reati come lo smaltimento illegale di rifiuti (anche tossici), l’abusivismo edilizio, l’escavazione abusiva, il traffico di animali esotici, il saccheggio di beni archeologici e l’allevamento di animali per il combattimento. Mostruosità che si concentrano soprattutto nel sud Italia, ma delle quali anche le regioni del centro-nord sono buone alleate.

L’ultima (brutta) storia di ecomafia, arriva dalla Campania, regione che detiene il triste primato per questa tipologia di crimine e in particolar modo da Acerra, paese della provincia napoletana che con Nola e Marigliano forma il cosiddetto ‘triangolo della morte’, a causa dell’alto numero di rifiuti tossici rilasciati nell’ambiente. E proprio di traffico illegale di rifiuti tossici – scrive Nello Trocchia su Il Fatto Quotidiano – si tratta.

L’inchiesta del pubblico ministero Maria Cristina Ribera è partita sei anni fa, nell’ottobre 2006 e – benché alcuni degli imputati abbiano goduto della prescrizione – oggi sono 26 gli accusati di quello che è stato definito un vero e proprio disastro ambientale.

I rifiuti tossici arrivavano da Veneto e Toscana (per questo anche le regioni del centro-nord non devono sentirsi escluse) e gestiti soprattutto dai due fratelli Pellini, per i quali l’accusa chiede diciotto anni, e dal cosiddetto ‘imprenditore boss’ Pino Buttone. I profitti sullo scarico abusivo della ‘monnezza’ erano enormi e il losco giro d’affari comprendeva decine di funzionari e imprenditori, ma anche tre carabinieri, utilissimi per i lasciapassare, tra cui il terzo fratello dei Pellini, Salvatore.

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Bisogna immaginare un cimitero di rifiuti tossici, sepolti o abbandonati nei pressi di Acerra e le indicibili conseguenze che questi hanno sull’ambiente.

Il camorrista pentito Pasquale Di Fiore ha raccontato il disagio dei contadini della zona, che stanchi delle denunce insabbiate (tra i 26 imputati spicca anche Giuseppe Curcio, maresciallo dell’Arma), hanno deciso di rivolgersi direttamente ai clan per bloccare gli scarichi di queste migliaia di tonnellate di rifiuti tossici, che oltre a rovinare l’ambiente precludevano loro di poter coltivare i propri ortaggi da vendere. Vedendo che i prodotti non avevano più mercato, questi agricoltori erano costretti a falsificare le etichette di provenienza pur di riuscire a venderne una parte.

Un’altra tragedia è quella dei pastori, ancora in buon numero nella zona. L’avvocato Giovanni Bianco, per esempio, difende la famiglia Cannavacciuolo, dedita alla pastorizia da generazioni e che si è vista imporre la soppressione del gregge da parte delle autorità locali, in quanto le pecore si nutrivano di erba alla diossina. Lo stesso pastore Vincenzo Cannavacciuolo, è morto in attesa di giustizia per un tumore.

E la politica che cosa fa? Non interviene? Certo, interviene, ma dalla parte sbagliata. In aula a difesa dei Pellini (che comunque si dichiarano innocenti ed estranei ai fatti) c’era anche Alessandro D’Iorio, assessore al bilancio del comune di Acerra. Un rappresentante di spicco della comunità che dunque si sente di schierarsi dalla parte degli accusati prima della sentenza definitiva, una posizione perlomeno discutibile, viste le circostanze.

La prossima udienza è fissata per la fine di gennaio e nell’occasione gli imputati potranno disporre di un’arringa difensiva prima della sentenza della corte. Colpevoli o innocenti, resteranno le migliaia di tonnellate di rifiuti tossici, resteranno i prodotti falsificati dei contadini acerrani e le pecore avvelenate dei pastori. Resteranno i disastri ambientali su cui la malavita continua a lucrare, infischiandosene dell’ambiente. Resteranno (anzi, forse cresceranno) i 23 miliardi di euro che ogni anno guadagnano sulla vita delle persone.

Peppino Impastato diceva che “la mafia è una montagna di merda”. Possiamo dirlo forte e aggiungere che, ora, è anche una montagna di monnezza tossica.

di Luca Romeo