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(foto fonte web)
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«Una mattina di febbraio entro in Corte d’Assise e vedo, dentro una gabbia adatta a contenere la ferocia di Totò Riina, controllato da sei colossali guardie penitenziarie, un gigante gentile e smagrito. Ha gli occhi azzurri e, per un attimo, un sorriso che viene da un altro tempo. È imputato per omicidio e io lo conosco».

Sono queste le parole del giornalista e scrittore bolognese, Gabriele Romagnoli che, in “Domanda di grazia”, dipinge con vivace taglio giornalistico il ritratto di un delitto abietto, la cui cornice si colora di un tono politico-sociale, oltre che autobiografico. Il romanzo-verità si apre con una dedica «al Presidente della Repubblica italiana» e si presta ad essere una riflessione sul sistema giudiziario che, attraverso un iter istituzionale necessario, potrebbe portare ad una concreta richiesta di grazia per il condannato.

Protagonista del libro è Andrea Rossi, commercialista ineccepibile, buon marito e padre di sei figli, amico dell’autore sin dai tempi del liceo. Romagnoli lo ricordava, infatti, adolescente, popolare tra le ragazze, votato all’eccellenza in ogni campo, ragazzo dalla morale rigida e puntigliosa; caratteristiche che avrebbero sbigottito e reso incredulo chiunque si fosse trovato dinanzi ai suoi “occhi ingabbiati”, sotto i quali, presumibilmente, è stato consumato il delitto.

Accusato dell’omicidio di Vitalina Balani, una sua anziana cliente che aveva prestato al Rossi due milioni di euro per rimediare ai suoi dissesti finanziari, verrà poi condannato ad una pena senza fine.

Secondo i giudici, una torrida mattina d’estate il protagonista avrebbe ucciso la settantenne, strangolandola a sangue freddo nel suo appartamento bolognese. Nessuna prova, ma due indizi schiaccianti: uno scontrino fiscale esibito come alibi, la cui ora sbagliata lo trasforma in capo d’ accusa e l’aver cancellato dal computer i file relativi alla contabilità della vittima e alle loro transazioni.

L’ autore-amico, con perfetta lucidità, racconta la sua esperienza nelle aule giudiziarie: assiste alle sedute del giudizio di primo grado e d’ appello, nota le incongruenze dei testimoni, le gaffes degli avvocati difensori; convincendosi del fatto che l’ amico non fosse stato sottoposto ad un giusto processo.

Pensa, infatti, che «la sua colpevolezza non sia stata provata oltre ogni dubbio», ma precisa anche: «Credo che la sua innocenza sia stata ancor meno dimostrata».

Come può, dunque, un processo condotto con approssimazione decretare un giudizio, nel caso Rossi, di condanna?

«Non ci sono altri modi di guardare le cose: la vita stessa è una sentenza. Quel che non siamo stati non potevamo essere. Ogni altra considerazione è un alibi, uno sfregio alla logica, ma soprattutto una perdita di tempo. Di fronte allo stato delle cose le soluzioni non si trovano nel passato, ma nel futuro. E l’unica, per Andrea, è la domanda di grazia».

di Annalisa Ianne