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Dal caso Trayvon Martin a Oscar Grant, esce negli States un film-denuncia sulla piaga degli omicidi razziali.

Il 13 luglio 2013 è stata espressa da una giuria del tribunale di Sanford (Florida), la sentenza finale sul caso George Zimmermann, 29enne ispanico accusato di aver sparato lo scorso 26 febbraio 2012 a Trayvon Martin, un ragazzo di colore trovato colpevole di camminare in tarda sera in un quartiere per bianchi.

Il giudizio finale di “non colpevolezza da tutte le accuse” ha chiuso una delle più celebri e appassionanti pagine di (mala)giustizia americana degli ultimi anni, tale che l’emanazione della sentenza è stata seguita in diretta tv da milioni di persone. Le polemiche sull’intera vicenda, tuttavia, non accennano a diminuire, e anzi in queste settimane numerose manifestazioni di protesta si sono sollevate spontaneamente lungo tutti gli States.

Il caso Trayvon Martin

All’epoca dei fatti, George Michael Zimmermann aveva 28 anni. Figlio di un ex-magistrato della Virginia, è stato cresciuto secondo i precetti cattolici in una famiglia definita dal padre stesso “multirazziale”. Eppure, a quanto pare, quell’ambiente multietnico da cui George era circondato non è riuscito a far fiorire in lui i valori della comprensione e del rispetto interumani.

Zimmermann, infatti, non è mai riuscito a controllare i suoi impulsi violenti; nel 2005, a soli 21 anni, ricevette la prima accusa di aggressione a un agente di polizia e resistenza all’arresto –poi respinta-, a cui venne aggiunto, sempre nel 2005, un ordine restrittivo –questa volta accolto- vertente sulla violenza domestica, presentato da un’ex-fidanzata. In conseguenza del processo che ne derivò, Zimmermann fu obbligato ad entrare in un programma di lezioni di gestione della rabbia.

Nel 2009, Zimmerman e sua moglie si trasferirono a The Retreat at Twin Lakes, un quartiere notoriamente a popolazione mista (bianchi non-ispanici, ispanici, neri e asiatici) di Sanford (Florida). Tanto per rendere un’idea delle difficoltà di una convivenza pacifica interrazziale e del clima di paura generalizzata che regna(va), basti pensare che in poco più di un anno -dal 1 gennaio 2011 al 26 febbraio 2012, data dell’uccisione di Trayvon Martin– la polizia fu chiamata a intervenire a The Retreat at Twin Lakes ben 402 volte, per i motivi più vari, che spaziavano dalle semplici segnalazioni di sospetti, al furto con scasso, fino al rapimento.

Il perché di tante tensioni è presto detto. In un ambiente in cui tante persone diverse, di storia e vita diversa, si ritrovano a dover convivere, è inevitabile che ci si scontri con la “diversità”. Ed è cosa nota che la “diversità” fa paura, e che la paura sia un sentimento capace di dilagare fino ad impossessarsi delle vite della gente. Per paura, le persone sono portate prima a difendersi e rinchiudersi, e poi a tramutare quella paura in necessità di controllo. E questo è esattamente quello che stava succedendo a Sanford.

V’era, inoltre, la volontà da parte della popolazione di non affidarsi ad “esterni” per gestire la propria sicurezza, perché in fondo né la polizia, né gli allarmi delle case o i cani da guardia o lo spray al peperoncino sono sufficienti a garantire una gestione reale della paura. C’è bisogno di affrontare la paura direttamente, cercando di “farsi giustizia da sé”. Ecco quindi che nel 2009, dopo una serie di riunioni di quartiere atte a denunciare quel clima imperversante, George Zimmermann, che era uno dei membri della comunità che più spesso partecipava alle operazioni di polizia, decide di auto-proclamarsi “capitano dei vigilanti di quartiere”.

Anche se di norma i vigilanti volontari non sono autorizzati a portare armi, già dallo stesso anno Zimmermann aveva ottenuto dal dipartimento di Polizia il diritto legale di trasporto di un’arma da fuoco. Come dimostreranno poi le indagini, al momento della sparatoria a Trayvon Martin quella licenza di trasporto armi per Zimmermann era ancora valida. Il caso Martin non ha potuto quindi che aumentare la sfiducia tra la polizia e la comunità nera di Sanford.

Ma veniamo ai fatti. 26 febbraio 2012, ore 19 circa. George Zimmermann stava facendo il suo solito giro di ronde nel proprio quartiere, a Sanford. Un alto ragazzo nero 17enne, con piccoli precedenti e un paio di sospensioni a scuola (una per ritardo e assenze ingiustificate, una per graffiti), di nome Trayvon Benjamin Martin, si aggira per The Retreat at Twin Lakes con aria accrucciata. Ha indosso una felpa col cappuccio alzato e sta tornando, a piedi, a casa della compagna del padre, che era andato a trovare. Mentre cammina sta al telefono con un’amica. Tiene l’altra mano in tasca, ed è evidente che c’è qualcosa dentro: sicuramente un’arma, pensa George Zimmermann, che vede in quel ragazzo l’immagine stereotipata dello spacciatore di strada.

Così, Zimmermann chiama il 911 –che gli dice di non intervenire-, si avvicina, dà l’alt. Martin si vede inseguito, l’amica al telefono gli dice di scappare, ma Zimmermann lo raggiunge presto. Ne nasce una breve colluttazione –iniziata da Martin-, seguita dalle urla di aiuto di Zimmermann. Cade la linea. Infine uno sparo, al petto, a distanza ravvicinata. Alle 19:17 arrivano i soccorsi ma Trayvon Martin viene dichiarato morto appena qualche minuto più tardi. Dentro le sue tasche vengono ritrovati una confezione di caramelle e una bottiglietta di tè.

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Diritto di uccidere?

Episodi come quello di Trayvon Martin non sono una novità negli States. Gli omicidi “ragionevolmente preventivi” (come fu dichiarato all’epoca da George Zimmermann), specie se compiuti su certe categorie di persone sospette, sono specificatamente permessi dalla legge dello Stato della Florida “Stand Your Ground”. Eppure, rimane evidente chiedersi come possano ancora oggi succedere episodi di tale gravità in un Paese governato da un Presidente afroamericano. Proprio Barack Obama, intervenendo sul caso Martin, ha recentemente dichiarato che la morte di Trayvon è “una tragedia” e che “Trayvon Martin poteva essere lui 35 anni fa”. Anche dalle colonne del Washington Post, Eugene Robinson scrive che “sono tempi pericolosi per i neri in America”, partendo proprio dal caso di Trayvon Martin.

La morte di Trayvon ha spinto nel marzo 2012 migliaia di persone a sfilare nella Million Hoodie March, una manifestazione composta da persone tutte incappucciate, organizzata per dare il proprio supporto alla famiglia Martin. Ma, purtroppo, magari fosse così semplice.

La paura, e conseguentemente l’odio, non conosce selezione. I “crimini razziali” negli States hanno colpito negli ultimi anni -e in particolar modo dopo l’11 settembre- anche altre comunità, come quella asiatica o musulmana. Balbir Singh Sodhi, sikh che stava pianificando di tornare in India dopo gli attentati del 2001, Adelal Karas, donna scambiata per musulmana ma in realtà copta, Waqar Hassan Choudry, ucciso mentre si trovava nel suo negozio di alimentari e Oumar Dia, immigrato africano, sono solo alcune delle vittime di questa ondata d’odio e paura.

In realtà, il vero problema è che non si tratta solo di vedere condannato il colpevole di un assassinio, per quanto, certo, questo sia desiderato e auspicabile. E’ piuttosto la necessità di denunciare un intero sistema in cui omicidi come quello di Trayvon Martin sono di primaria importanza.

Ed è per questo che ricordiamo infine Oscar Grant, la cui vicenda è così tremendamente simile a quella di Trayvon. Oscar, 22 anni e una figlia di quattro, venne freddato con un colpo di pistola da una guardia di sicurezza la notte di Capodanno 2009, dopo essere stato coinvolto in una rissa sul treno della metropolitana tra Oakland e San Francisco, all’altezza della fermata Fruitvale Station. In sua difesa, Johannes Mehserle, l’agente che sparò il colpo fatale, giurò che in quel momento era convinto di avere in mano la sua pistola elettrica, e non quella vera. Il che, anche se fosse vero, dà da riflettere in ogni caso.

“Fruitvale Station”

Proprio con l’obiettivo di portare questo messaggio di umana solidarietà a più persone possibili, ecco che il regista Ryan OJ Coogler ha deciso di portare la protesta anche sul grande schermo. Il film da lui scritto e diretto, Fruitvale Station, vuole partire proprio dalla storia di Oscar Grant per denunciare la piaga degli omicidi razziali. Non a caso il film è stato intitolato proprio come quella disgraziata fermata della metro in cui s’è verificata la morte di Grant.

Il film, esordio alla regia per Coogler, è stato presentato al Sundance Film Festival 2013, dove ha vinto il Gran Premio della Giuria, nella sezione “U.S. Dramatic Competition“, e il Premio del Pubblico. Nei cinema americani, Fruitvale Station ha fatto registrare ovunque il tutto esaurito e anche la sua uscita in Italia, avvenuta lo scorso 12 luglio, è stata accompagnata da un buon successo di pubblico e critica.

Di certo, a fare da collante per il successo di Fruitvale Station non sono state solo la qualità del film in sé o la notevole interpretazione del suo protagonista, Michael B. Jordan (già visto in Chronicle): la novità sta nel modo di regista di guardare ai fatti, la deliziosità con cui è stato capace di trattare argomenti così discutibili, e la gentilezza con cui crude immagini (vere) di ripresa dell’accaduto sono state inserite nel film. La potenza espressiva è tale che non si può rimanere impassibili davanti a certe scene. Resta solo il pianto, e un grido interiore che fa dire “basta” a certe violenze.

Se è vero che Oscar Grant o Trayvon Martin potevano davvero essere uno qualunque di noi, Fruitvale Station è un film che va visto. E ragionato. Perché in un mondo che si definisce “civilizzato”, i pregiudizi, le paure, e l’odio possono e devono essere superati. Almeno nel 2013.

di Chiara De Angelis