(foto fonte web)

(foto fonte web)

Spread the love
(foto fonte web)
(foto fonte web)

L’attentato del 3 settembre 1982 al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e le pieghe del crimine tra Brigate Rosse, mafia e politica.

La prima volta in Sicilia                

La carriera di Carlo Alberto Dalla Chiesa si distingue tra vari incarichi. Il suo arrivo in Sicilia è datato 1966: con il grado di colonnello viene messo al comando della legione dei carabinieri di Palermo. La sua azione si volge subito verso la lotta alla mafia e a Cosa Nostra. Il metodo di Dalla Chiesa si rivela efficace, seppur rischioso: l’utilizzo di infiltrati permette alle forze dell’ordine di arrivare a scoprire le gerarchie dell’organizzazione mafiosa non solo ai livelli più bassi, ma anche ai vertici.

In seguito a queste indagini viene redatto il “dossier dei 114”, nei quali vengono evidenziati per la prima volta i nomi di alcuni dei capi di Cosa Nostra, come quelli di Luciano Liggio e Michele Greco. I successivi arresti disposti da Dalla Chiesa portano i pregiudicati non più nelle grandi carceri del nord Italia bensì nelle isole di Linosa, Asinara e Lampedusa.

Il Nord e le BR

Nel 1973 Dalla Chiesa viene promosso a generale di Brigata e lascia la Sicilia per approdare in Piemonte, dove diventa comandate della Regione militare di Nord Ovest. Stavolta il nemico è rappresentato dalle Brigate Rosse, con le quali il Generale utilizza gli stessi metodi utilizzati contro Cosa Nostra, utilizzando degli infiltrati per conoscere al meglio i vertici dell’organizzazione terroristica.

È senza ombra di dubbio in seguito all’omicidio di Aldo Moro che si raggiunge L’apice della lotta al terrorismo. Dalla Chiesa ottiene la concessione di poteri speciali (atto che le sinistre commentano come “atto di repressione”) e inizia una vera e propria caccia all’uomo verso i vertici delle Brigate Rosse.

Arrivano subito i primi risultati e dopo la perquisizione in via Montenevoso a Milano, dove vengono ritrovati importanti documenti su Aldo Moro, compreso il memoriale scritto dall’ex-premier.
Altri importanti risultati (come l’irruzione in via Fracchia) consentono a Dalla Chiesa di chiudere vittoriosamente la sua battaglia alle BR prima del nuovo trasferimento.

Il Sud fatale

Nel 1982 Dalla Chiesa torna a lottare contro la mafia. Viene nominato Prefetto di Palermo, nonostante un suo iniziale scetticismo; l’obiettivo del Consiglio dei Ministri, che gli consegna la carica, è quello di ripetere gli eccellenti risultati ottenuti nella lotta alle BR. Nonostante i buoni propositi governativi, Dalla Chiesa viene lasciato solo e senza potere. Emblematica una sua intervista a Giorgio Bocca, nella quale denuncia una mancanza una carenza di sostegno e mezzi; secondo il Generale infatti la lotta a Cosa Nostra, oltre al solito metodo degli infiltrati, andrebbe combattuta in tutte le strade, con un massiccio impiego di uomini.

In ogni caso i risultati arrivano: come nell’esperienza precedente, Dalla Chiesa redige il “rapporto dei 162”, seguito da una lunga serie di arresti che si avvalgono anche dell’aiuto della Guardia di Finanza, anche per cercare di scoprire eventuali legami tra il mondo mafioso e quello politico.

L’omicidio

Il 3 settembre del 1982 il generale Dalla Chiesa sta viaggiano sulla sua auto con la moglie Emanuela.
Nei pressi di via Isidoro Carini a Palermo, l’auto viene affiancata da una BMW dalla quale vengono esplosi dei colpi da un AK47 che uccidono sia il generale che la moglie. Anche l’auto della scorta, sulla quale viaggiano Domenico Russo e l’autista, viene affiancata da una motocicletta dalla quale parte un’altra raffica che uccide tutti. Il 5 settembre una telefonata anonima al quotidiano “La Sicilia” riferisce che “L’operazione Carlo Alberto è conclusa”.

Come al solito per attendere la risoluzione dei processi bisogna attendere vent’anni: solo nel 2002 vengono condannati Vincenzo Galatolo, Antonino Madonia, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci quali esecutori materiali dell’omicidio. Come mandanti sono condannati i vertici di Cosa Nostra, tra cui i boss Totò Riina e Bernardo Provenzano.

di Nicola Guarneri