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In nome della fede tutto è concesso?    

Tormenta una domanda dopo aver letto della sposa-bambina yemenita morta per dissanguamento dopo la prima notte di nozze: sono tollerabili drammi simili sebbene in nome di una cultura religiosa?

Il fatto, gravissimo, offre lo spunto per una riflessione, senza neanche approfondire la veridicità della notizia nello specifico, perché sui fatti che coinvolgono questioni religiose, culturali e politiche arrivano anche le smentite, come sempre.

Giusto?

Machiavelli probabilmente risolverebbe la questione con il suo motto lapidario “il fine giustifica i mezzi”, ma davanti ad un orrore simile non si può fare finta di niente. Qui si stanno calpestando i diritti umanitari che sono alla base della civiltà moderna.

Risale al 10 dicembre 1948 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite che proclamava la Dichiarazione universale dei diritti umani, in cui per la prima volta nella storia dell’umanità veniva scritto un documento che riguardava tutte le persone del mondo, senza distinzioni, evidenziando i diritti di cui ogni essere umano deve poter godere per la sola ragione di essere al mondo. Eppure oggi, anno 2013, questa dichiarazione viene ancora disattesa, per ignoranza o per comodità.

La stessa comodità con cui chi abusa del potere conferitogli o estorto giustifica scempi simili a quello in apertura di articolo, facendo leva sull’ignoranza in cui versa chi questo potere lo subisce. E tra le giuste cause di comodo qui si tira in ballo proprio la religione, che ricalca esattamente la stessa bipolarità. Del resto la Storia per prima ci insegna che la religione è sempre stata un potente strumento di potere, facilitando la sottomissione di intere popolazione in nome di una entità superiore pilota di ogni azione e responsabile di ogni accadimento.

L’altra cultura

La vicenda della sposa-bambina è accaduta nello Yemen, terra di lotta intestina religiosa tra diverse correnti musulmane. E le immagini che i media ci rimandano di quel mondo non lascerebbero molto spazio all’immaginazione: secondo la prospettiva dell’“Occidente”, le condizioni di vita primitive impediscono agli yemeniti di progredire, ritardandone pesantemente l’evoluzione rispetto alla civilizzazione industriale del mondo.
La religione diventa occasione per spingere all’osservanza stretta dei Comandamenti religiosi, ma molte volte seminando terrore in caso di trasgressione.

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La religione, qualsiasi religione, nell’accezione moderna del termine non può limitarsi al mero uso e consumo dell’uomo potente in carica; così come non può scorrere su un binario parallelo a quello della società guardandola con distacco e imponendosi come un dato di fatto, piuttosto che dialogare con essa per comprenderne i cambiamenti, i momenti di crisi, supportandola, fornendo delle risposte, proponendo una linea di condotta, senza venire meno al proprio credo.

Nel nostro mondo

Senza andare a scomodare i musulmani, la stessa religione cattolica – almeno fino al Concilio Vaticano II – ottusa di fronte alla rapida modernizzazione della società, finalmente ha aperto la porta per guardare fuori cosa succede, ritrovandosi oggi più di prima a cogliere i segnali di un mondo che cambia. Il nuovo Papa Francesco parla di uscita verso il mondo, di apertura ai segni dei tempi, accettando di approfondire temi che pur senza essere articoli di fede finora erano ritenuti inviolabili.

La religione non è qualcosa di assoluto perché altrimenti sarebbe slegata da tutto, sarebbe fine a se stessa; al contrario invece essa dialoga con l’uomo, è fatta di relazione, è per sua natura aperta, come la verità. E la verità è l’obbligo morale che muove ciascuna coscienza quando si trova di fronte a fatti gravi e inclassificabili come la morte di una sposa-bambina. Nel cogliere la verità è vero che si parte da sé, dalla propria storia e cultura, dalla situazione in cui si vive, ma è innegabile che debba esserci qualcosa di sotteso a tutte queste variabili, un comune denominatore insito nella coscienza di ciascuno, che gli permetta di estrapolare dai fatti ciò che è Bene e ciò che è Male per l’uomo.

I diritti umani precedentemente citati potrebbero essere un valido criterio di valutazione super partes, indipendente da qualsiasi religione, razza e nazionalità. O no?

di Chiara Collazuol