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Schiavo, nella terra della Libertà

Dal 1600 circa, per più di un secolo, in America era istituita la schiavitù. Erano uomini assoggettati che perdevano totalmente la loro dignità di essere umano, diventando “merce” acquistata in Africa da mercanti di schiavi, per poi essere utilizzati come servi e braccianti nelle piantagioni delle colonie.

Gli schiavi erano per lo più africani neri e i loro padroni, uomini “bianchi”. In realtà vi era anche una piccola percentuale di nativi americani e di neri liberi che a loro volta possedevano schiavi. Pochi sanno ad esempio che il primo uomo a possedere degli schiavi nelle Americhe, quando quei territori non erano ancora stati nominati Stati Uniti non fu un Europeo, bensì un negro, tale Anthony Johnson, che nel 1654, fece istituire la schiavitù in Virginia, quando ancora era una colonia inglese.

Per inciso, il termine “negro” è usato solitamente in toni dispregiativi, in realtà è la denominazione più corretta di un gruppo razziale. Si, perché dire “africani” sarebbe troppo ampio, dato che includerebbe anche popolazioni appartenenti a gruppi razziali differenti e usare il termine “di colore” riguarderebbe le più svariate popolazioni.

Gli schiavi, nel 1860, erano circa 4 milioni. Tra il Settecento e l’Ottocento, la schiavitù e la sua pratica fu spesso argomento di dibattito nella politica degli Stati Uniti. Questa tematica assunse un ruolo importante, tanto da portare una ratifica della Costituzione ed essere anche una delle principali cause, dato il peso morale che arrecava, a indurre alla guerra di secessione americana.

Lo schiavismo, dopo, divenne illegale in tutti gli Stati Uniti d’America. fu modificato il tredicesimo emendamento della Costituzione, anche se la pratica sopravvisse per alcuni anni, assoggettando questa volta i nativi americani.

L’altra faccia dell’America

È in questo periodo storico che si snoda la trama di 12 Years a Slave, nuovo film del regista britannico Steve McQueen (Hunger, Shame). Film, per altro che ha già fatto incetta del premio più notevole del Toronto International Film Festival, il People’s Choice Award 2013, e che ha suscitato il rammarico del direttore artistico della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Alberto Barbera, per non aver potuto avere l’onore di ammirare “un film così potente”, alla settantesima edizione del festival della laguna. Sarà proiettato nelle sale d’oltreoceano dal 18 ottobre 2013, in copie limitate.

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Tratto dall’omonima autobiografia di Solomon Northup, 12 Years a Slave, racconta del talentuoso violinista di colore, interpretato da Chiwetel Ejiofor, che nel 1841 viveva a New York con moglie e figli, come libero cittadino e di come, ingannato da due falsi agenti di spettacolo, si ritrova: rapito, privato dei suoi documenti e portato in una piantagione di cotone in Louisiana, nella quale rimarrà come schiavo per dodici lunghi anni, fino all’incontro casuale, catalizzatore di tutte le sue sofferenze, nel 1853, dell’abolizionista canadese Samuel Bass (Brad Pitt, e anche produttore del film) che gli cambierà per sempre la vita.

Nel lungometraggio sono descritte scene di crudeltà perpetrate dal perfido schiavista Edwin Epps (Michael Fassbender), atti di bontà forse inaspettati, e lotte. Atti di sopravvivenza, e di coraggio, per riuscire a conservare la propria dignità.

Schiavi di oggi e schiavi di ieri

Film intriso della tanto agognata libertà, uno dei sogni americani. In viaggio sulla lunga strada verso gli Oscar, se dovesse realmente far conquistare una statuetta a McQueen, il regista inglese potrebbe essere il primo direttore di colore a vincere questo importante premio del mondo della cinematografia.

Un evento simbolicamente potente in un’America, e più in generale, in una società dove certamente non è più presente la schiavitù di una volta, pesante, violenta e crudele. Comunque sempre presente. Forse più sottile, ma facilmente rintracciabile in certe situazioni lavorative, con orari insostenibili e condizioni precarie.

Negli Stati Uniti di Obama e in altre parti del mondo, economicamente più sviluppate, non ci sono più catene che imprigionano e fanno soffrire, ma ancora, non ci sono neanche uomini e donne totalmente liberi.

 di Daya Biondi