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(foto fonte web)
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Strana espressione sul suo viso e le rughe del suo volto appaiono decise e seriose così come i tratti di pittura sulle sue tele, irrequiete, infelici ma geniali.

Non ci sono né sfumature, né pennellate ma macchie di colore, nette distinzioni cromatiche, sfondi che si susseguono e che si intrecciano nei mesi e nelle stagioni.

Ecco come appaiono le opere che attualmente sono esposte al Palazzo dell’Esposizioni di Roma nella mostra su “Il Guggenheim”. I visitatori hanno l’opportunità di poter osservare alcune delle opere sviluppate nel periodo più creativo di Pollock Jackson, tra il 1945 e il 1950.

L’opera non assume più il valore di riproduzione fedele dell’immagine, e tantomeno di rappresentazione, ma diventa testimonianza dell’atto di dipingere; diventa un tutt’uno con il modo di essere dell’autore e riesce a immortalare i gesti rapidi, le sue danze, la sua genialità, visualizzando lance sgorganti di pensieri.

Secondo quest’artista “dipingere è un modo di essere” e lui aveva il suo modo speciale. Scansando cavalletti e tavole preferiva solidi pavimenti dove poter poggiare ciò che sarebbe diventato intreccio di materia; scansando pennelli preferiva cazzuola, bastoncini, coltelli, vernice pura; opere che nascono da tutti gli angoli in egual misura, senza alcuna direzione preferenziale: tutto è parte del dipinto e il pittore stesso ne è il maggior rappresentante.

Ma la novità di tali opere non risiede soltanto nella formulazione della nuova tecnica dello “sgocciolamento” ma nell’utilizzo, sebbene poco evidente, della “frattalità” che scientificamente verrà scoperta solo venticinque anni dopo.

Fu Richard P.Taylor, docente di fisica dell’Università dell’Oregon, a scoprirlo. Come ci riuscì? Scansionando al computer a partire da “Blue poles, number 11”: dapprima strati di colore diverso e poi mostrati nella loro interezza suddividendo in celle quadrate tutta l’opera e discriminando statisticamente in quali di queste celle fosse presente il colore.

Anche attraverso lo studio di opere successive si è visto come la complessità della struttura frattale aumentasse con la raffinazione di questa nuova tecnica. Nessuna traccia è dovuta al caso: esso non appartiene a queste opere. Ciò che all’occhio umano può sembrare frutto della casualità e di un disordine mentale non è parte infatti di ciò che in realtà rappresenta.

Ogni creazione è frutto di traiettorie e linee guida, le quali uniscono diverse zone della tela sulle quali successivamente vengono effettuate ulteriori fasi pittoriche con lo scorrere del tempo. Quest’intreccio di step impercettibili è alla base della ricerca dell’autenticità di ogni opera di Pollock, discriminandone potenziali falsi.

Nell’esposizione romana è possibile ammirare l’evoluzione della tecnica e dell’autenticità del pittore. L’evoluzione in questo viaggio inizia con una tra le prime opere: “The moon woman” (1942).

Quest’ultima si mostra ricca di simbolismi e di contrasti, di grovigli, di segni inesplicabili e di “soste di genialità” in alcune esposizioni di opere senza titolo. L’autore impara a convivere con il suo disagio accettando la propria ferocia e la propria rabbia abbandonandosi ad esse, cedendo ai propri vizi, liberando parti di sé nella vernice colante.

Questo è quanto accade nelle opere quali “Number 18” (1950). L’avvicinarsi dell’oblio e dell’ossessione, del distacco dalla realtà e dall’obbligo delle consuete tecniche, ben si evince nell’ultima sua grande tela (“Ocean Greyness” del 1953) dove grandi occhi scrupolosi in un oceano grigio ti guardano mentre si lasciano sprofondare; sembrano boccioli rosacei che vengono sommersi dal grigiore dell’irrequietudine nella consapevolezza di una primavera che non verrà.

di Ghirigori Avanzati