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(foto fonte web)
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Disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose, inquinamento atmosferico. Non si sentiva una lista di capi di accusa così lunga dai tempi di Tuco, l’eroe ‘brutto’ de Il buono, il brutto, il cattivo, ma stavolta non si tratta di un film di Sergio Leone e non c’è niente da ridere.

I capi d’accusa riguardano l’Ilva, l’acciaieria di Taranto divenuta tristemente famosa quest’estate, in seguito allo scandalo legato alle morti per tumore nella zone della fabbrica siderurgica, una delle più grandi d’Europa.

L’inferno degli operai pugliesi viene bloccato a fine luglio dal gip di Taranto Patrizia Todisco, che ordina l’arresto ai domiciliari della proprietà della fabbrica: il ‘re dell’acciaio’ Emilio Riva (80 anni) e il figlio Nicola Riva (58 anni). Lo step successivo e immediato è il sequestro dell’intero impianto, che di fatto sospende ogni tipo di lavoro. Per gli operai comincia così un nuovo inferno.

“Tesoro, ho una brutta notizia: hanno chiuso l’Ilva e siamo in mezzo alla strada”. “Oddio!”. “Scherzo, ho un tumore…”. La crudezza di questa vignetta di Natangelo spiega alla perfezione il nuovo dilemma che investe i lavoratori dell’acciaieria tarantina: morire di cancro o morire di fame. Un terribile bivio che coinvolge quasi quindicimila operai e, quindi, altrettante famiglie.

Secondo le rilevazioni dei periti a disposizione del gip, sarebbero ben 176 le morti dovute all’inquinamento causato dall’Ilva, dal 2004 al 2010, oltre venticinque all’anno e solo nei casi in cui il coinvolgimento dell’acciaieria è stato accertato.

Gli ultimi giorni di luglio sono stati teatro di grandi manifestazioni per le strade di Taranto (si è parlato di oltre settemila tute blu) con gli scioperi degli operai, terrorizzati dal dover scegliere tra la vita e il pane.

È la guerra del paradosso. La chiusura dell’acciaieria significherebbe la perdita di un posto di lavoro sicuro, per operai che nella maggior parte non hanno più un’età che permetta loro di trovare altrove un impiego. Dall’altra parte si profila uno spettro altrettanto tragico: continuare a lavorare respirando l’aria tossica della fabbrica.

“Non è detto che l’impianto venga chiuso – ha provato a tranquillizzare il ministro dell’Ambiente Clini – l’intenzione del governo è quella di sostenere la continuità delle attività produttive nel sito industriale”.

Intanto, passata l’estate e passati i guai dell’Ilva in secondo piano nell’informazione nazionale, il tragico dilemma continua a tener banco nell’area tarantina. A metà settembre, il procuratore della città Franco Sebastio, descrive senza creare illusioni la situazione della fabbrica, anche con una punta di pessimismo: “Non c’è alcuna autorizzazione a una produzione ridotta.

Gli impianti a caldo dell’Ilva sottoposti a sequestro inquinano e quindi non possono continuare a produrre” si legge sui quotidiani pugliesi. Neanche una minima boccata di ossigeno per quei 15 mila lavoratori che aspettano una bonifica legata a costi esorbitanti e che in pochi sentono davvero realizzabile. In attesa di nuove proposte, resta sempre il tragico bivio: diritto al lavoro o alla salute?

Ecco come un paradiso di sole e mare, culla del poeta latino Livio Andronìco, è diventato un inferno.

di Luca Romeo