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(foto fonte web)
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Cosa lega i pazienti di una clinica palermitana ai bambini del Terzo mondo bisognosi di cure? All’apparenza nulla se non le sofferenze alle quali vanno incontro irrimediabilmente gli uni e gli altri. Palermo, Clinica di Via Cordova.

Le intercettazioni disposte dalla Procura ed eseguite dai carabinieri del Nas accertano uno scandalo di enormi proporzioni: ai malati di tumore non è consentito accedere alle cure che prevedono medicinali dai costi troppo elevati. L’ordine di impedire che ai pazienti venga concessa la possibilità di ricevere assistenza parte dalla dottoressa Maria Teresa Latteri.

La questione attorno alla quale ruota l’intera vicenda ha a che fare con il costo delle cure necessarie. La Regione rimborsa infatti soltanto la cifra di cento euro a seduta.


Il resto dei soldi necessari deve essere sostenuto dalla clinica e dunque si pone una questione pratica di bilancio. Gli episodi incriminati hanno a che fare con diversi pazienti e in più date. Uno dei più emblematici è quanto avviene il 14 settembre 2009, laddove il malato è indicato nella documentazione dei Nas come “Signor D”.

In quell’occasione quest’ultimo avverte un forte senso di calore al viso e richiede quella che è la pratica usuale (e oggetto delle intercettazioni) ovvero la somministrazione del disintossicante Tad 600; ma la dottoressa Latteri è irreprensibile: quel medicinale “non serve”.

In realtà si tenta in tal modo di evitarne la somministrazione per ragioni di costi. Lo stesso avviene per altri pazienti e in altre occasioni. Tutto ciò fino all’arresto da parte dei carabinieri. Ma la vicenda giunge proprio nei giorni in cui si discute del problema enorme dell’assenza di assistenza ai bambini del Terzo mondo a causa di malattie spesso “banali” agli occhi dell’Occidente.

Le due vicende sembrano lontane tante quanto i chilometri che ne separano le vittime. E invece si tratta di una comune problematica che attiene al costo dei medicinali e che unisce quanto avvenuto a Palermo e quanto ormai da decenni si consuma nelle aree più povere del mondo.

I medici a capo delle cliniche, certo, appaiono come gli unici (e sicuramente diretti) responsabili del malaffare che si ha nella sanità. Eppure i problemi non hanno mai un’unica spiegazione ma partono da lontano. Il mondo della sanità, ancor più di tanti altri settori della vita pubblica, soffre di una patologia che sembra essere incurabile: le lobby.

Il costo dei medicinali imposti dalle case farmaceutiche, le speculazioni sulla pelle dei malati, le differenze economiche e sociali che si ripercuotono sulle possibilità o meno di cura, diventano una vera e propria fonte di ricchezza per chi è in grado di dominare questo mercato. Si tratta delle stesse lobby che hanno poi ramificazioni in politica e dunque nel mondo economico sfuggendo a leggi e sanzioni. E non importa che il “livello di azione” sia locale, nazionale o su scala internazionale.

Il concetto è sempre lo stesso: prima gli interessi e poi la vita degli esseri umani. Seguendo questa prospettiva, fa quasi “sorridere” l’idea che molte volte si paventa attraverso i media laddove al comune cittadino è chiesto di intervenire di tasca propria per risolvere problemi che hanno invece una dimensione tutt’altro che alla sua portata.

In questo quadro tutt’altro che edificante non è possibile non chiedersi che senso abbia appellarsi alla solidarietà nazionale quando invece chi ha responsabilità di governo non promuove politiche in grado di risolvere i problemi a monte.

Viene così in mente la storiella che i saggi cinesi raccontavano alle generazioni più giovani, laddove si spiegava che nel vedere un uomo affamato era molto più importante insegnare a quell’uomo come pescare piuttosto che procurargli il cibo a giorni alterni. E per la nostra civiltà vale lo stesso.

Conservare la speranza è legittimo ma allo stesso tempo bisogna essere realisti. E la realtà si riassume per i bambini del Terzo mondo così come i malati di tumore a Palermo in una delle frasi della dottoressa Latteri: “Perché spendere? Ci danno solo cento euro. I parenti sperano che muoia: non gli faccio altri dieci giorni di albumina. Sono soldi!”.

di Pasquale Ragone  

(Articolo tratto dal settimanale “International Post”, 10.10.2011)