(foto fonte web)

(foto fonte web)

Spread the love
(foto fonte web)
(foto fonte web)

Aggiornare i lettori su quanto avvenuto esattamente vent’anni fa appare doveroso alla luce delle sempre più frequenti informazioni che rimbalzano dalla Procura di Caltanissetta (che direttamente si occupa delle indagini) alla Procura Antimafia di Palermo (laddove confluiscono le indagini sui casi di mafia).

L’ultima delle novità ha del clamoroso: le responsabilità sui depistaggi relativi alla morte di Paolo Borsellino sarebbero di colui che per anni è stato considerato il “Superpoliziotto”, vale a dire Arnaldo La Barbera.

Le presunte rivelazioni sorgono grazie agli interrogatori di Vincenzo Scarantino che per anni è stato considerato l’esecutore materiale della strage. Le sue dichiarazioni sono piuttosto sconvolgenti: avrebbe subito sevizie, torture e violenze di ogni genere per mano della Polizia penitenziaria.

E tutto sarebbe stato voluto da Arnaldo La Barbera che dopo la morte dei due giudici aveva assunto la carica di capo del “Gruppo Falcone e Borsellino”, pool investigativo teso a scoprire la verità sulle stragi. Ma proprio quella verità sarebbe stata negata alla giustizia italiana per via dei depistaggi messi in atto da La Barbera. “Io non sapevo neanche dov’era via D’Amelio. Ho parlato solo per paura: mi torturavano, mi picchiavano, mi facevano morire di fame”.

Sono queste le parole proferite da Scarantino nel corso dell’ultimo interrogatorio, datato settembre 2009, riscoperto dagli inquirenti e destinato a riempire il faldone per la revisione del processo. Secondo Scarantino La Barbera era colui “che vedevo prima di ogni incontro. Quando poi arrivavano i magistrati non riuscivo mai a ritrattare”.

(foto fonte web)
(foto fonte web)

E le stesse dichiarazione sono presenti in altri interrogatori. Stavolta a parlare sono Salvatore Candura (accusato di avere rubato la Fiat 126 utilizzata per l’attentato) e Francesco Andriotta (compagno di cella negli anni immediatamente successivi alla strage), rispettivamente interrogati nel 1995 e nel 1993.

Entrambi riportano esplicitamente il nome di Arnaldo La Barbera accusandolo di avere indotto false testimonianze promettendo sconti di pena, milioni di lire per aprire fantomatiche attività, fino a minacce e violenze fisiche.

Tutto per indurre a confessioni utili a consegnare alla giustizia una verità, un nome, qualcuno da condannare all’ergastolo. E assieme a La Barbera finiscono nell’occhio del ciclone anche altri due poliziotti, all’epoca appena usciti dalla scuola di Polizia: Mario Bo e Vincenzo Ricciardi.

La scoperta dei suddetti interrogatori potrebbe segnare un punto di non ritorno per le indagini. In particolare risulta sconvolgente l’acquisizione del “Superpoliziotto” nelle indagini sulle stragi, stavolta dall’altro lato della barricata. Ma chi era La Barbera? Ex uomo della Montedison, entra nella Polizia nel 1972 sotto l’ala protettiva del commissario Luigi Calabresi. Quest’ultimo verrà ucciso proprio nel 1972 per mano della Br.

Dal 1976 al 1988 dirige la Squadra Mobile di Venezia per poi tornare alla Questura di Palermo dove resta fino al 1997; per poi divenire Questore di Napoli e Roma, diventando così il numero uno dell’Ucigos e implicato nel 2001 per le perquisizioni della scuola Diaz di Genova durante il G8, chiudendo la carriera nel Cesis (la struttura di coordinamento tra Sismi e Sisde), fino alla morte per un tumore nel 2002.

In particolare sono due i dati che spingono gli inquirenti a dirottare le indagini verso la pista che spunta dagli interrogatori del ’93, ’95 e 2009: All’epoca dei fatti La Barbera era fra i cosiddetti “stipendiati del Sisde (Servizio Informazione e Sicurezza Democratica attivo fino al 2007) nel libretto paga fin dal 1987; ed era addetto alla sicurezza personale di Falcone.

Si tratta di due informazioni che aprono uno squarcio inquietante sulle stragi del ’92 se collegate alle parole dei pentiti e ai sospetti che più volte Paolo Borsellino aveva fatto presente alla moglie parlando di “sospetti sui propri colleghi e su uomini appartenenti allo Stato”.

Acquisterebbero nuovamente rilevanza i timori che ancora una volta Borsellino nutriva nei confronti di quel Castello Utveggio (si disse sede dei servizi segreti) dal cui sguardo tendeva spesso a nascondersi (essendo il linea d’aria con la propria abitazione).

Per i magistrati chiamati a indagare sulle stragi del ’92 sorge ora la difficoltà di mettere assieme i cocci, fra i pentiti che riconducono unicamente alla mafia la mano e la mente delle stragi, e altri pentiti che invece denunciano depistaggi da parte dello Stato. La verità più a portata di mano vedrebbe la mafia esecutrice di una volontà superiore. Ma servono riscontri oggettivi che per ora mancano. Tuttavia sorge una domanda alla quale attendiamo risposta: perché un uomo del Sisde e a capo delle indagini sulle stragi avrebbe dovuto depistare dalla verità?

di Pasquale Ragone

(Articolo tratto da “International Post”, 6.2.2012)