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Tre indizi fanno un ergastolo oltre ogni ragionevole dubbio? Nel caso Rea la guerra non è ancora finita

Tribunale di Teramo, le porte chiuse impediscono di assistere alle battute finali (per il momento) di un processo che ha tenuto l’Italia intera sospesa tra ipotesi di colpevolezza e innocenza.

In aula, a quanto riferito, l’incessante brusio dei presenti è interrotto da un improvviso silenzio all’arrivo del Gup Marina Tommolini; al termine di quattro ore di camera di consiglio l’atteso verdetto. Il caporalmaggiore dell’esercito Salvatore Parolisi è stato condannato alla pena più dura che possa essere comminata ad un uomo: l’ergastolo.

Le ragioni di una condanna

La sentenza accoglie in toto, dunque, le richieste dei Pm Greta Aloisi e Davide Rosati. Senza mezze misure concesse tutte le sanzioni accessorie: la perdita della  potestà genitoriale, l’interdizione dai pubblici uffici e il pagamento di una provvisionale a favore della figlia Vittoria di 1 milione e 500 mila euro a favore della famiglia Rea.

Il legale del caporalmaggiore non intende “discutere”, per ovvi motivi, la sentenza affermando: «Salvatore è un soldato, sa che bisogna combattere e noi siamo pronti a combattere con lui – ha aggiunto – non ci sono problemi, la testa è alta, la sentenza è sfavorevole. La commenteremo quando avremo le motivazioni e la impugneremo».

Poco dopo la lettura del dispositivo, centinaia di curiosi che si accalcavano fuori dall’edificio trasformeranno la zona in un arena; fischi, urla di gioia, insulti, accompagneranno l’uscita del cellulare della polizia penitenziaria adibito a riaccompagnare Salvatore Parolisi al carcere di Castrogno.

Un uomo che, difficilmente, durante il processo, ha lasciato trasparire emozioni, se non nei pochi momenti in cui si è fatto riferimento alla piccola Vittoria.

Al rientro in cella, libero da ogni forma di autodifesa verso quel mondo che lo ritiene senza dubbi “il mostro”, nel silenzio di quella che ormai sarà la sua “casa”, si è lasciato andare ad un pianto senza fine, urlando più e più volte la propria innocenza. E’ un incubo che, con la sentenza di ieri, diventa realtà di vita e giudiziaria.

La legge ha deciso per la sua colpevolezza addebitandogli la ferocia di quell’omicidio ai danni della moglie Melania.

L’autopsia e le indagini: ma dove sono le prove?

E’ passato più di un anno e mezzo da quel 18 aprile 2011; lunghi mesi trascorsi cercando di districare i tanti enigmi che ruotano attorno a questa storia, cominciando da quella telefonata anonima che informa le forze dell’ordine della presenza di un cadavere nella pineta di Ripe di Civitella mostrante 35 brutali coltellate, un’arma mai più ritrovata e la morte per anemia emorragica acuta.

Nessuno dei colpi inferti sul corpo della giovane mamma erano stati mortali e, a quanto pare, il corpo sarebbe stato colpito anche post mortem; forse l’obiettivo era quello di depistare le indagini o forse le motivazioni alla base di quel gesto erano talmente ataviche da impedire alla mano dell’assassino di smettere di infierire sulla donna ormai esanime.

L’autopsia sembrava confermare l’ipotesi della tecnica militare “assalto alla sentinella”: l’omicida l’ha aggredita alle spalle, cercando di colpirla con un coltello alla gola per scannarla. Fuggendo dal killer, Melania è caduta a terra e in quel momento l’assassino ha potuto aggredirla e infierire su di lei.

Sin dall’inizio di questa vicenda, uno dei più grandi processi mediatici degli ultimi anni, nell’aria si respirava un giudizio di “colpevolezza preventiva” nei confronti di Salvatore; contro di lui e alla base della dura sentenza non c’è la prova schiacciante ma una serie di pesanti indizi, tre su tutti: le celle telefoniche che depongono per l’alta improbabilità che Melania si trovasse a Colle San Marco nelle ore della scomparsa.

Come invece ha sempre sostenuto Parolisi sostenendo la presenza di entrambi nella pineta di Ripe di Civitella all’ora del delitto; il Dna del caporalmaggiore rinvenuto sulla bocca di Melania, compatibile con un bacio o un contatto del marito poco prima della sua morte; infine, le molte menzogne dell’imputato in merito agli spostamenti della moglie, ai luoghi e, soprattutto, circa le relazioni extraconiugali.

Quanta giustizia c’è in quell’ergastolo?

Pesa in primis la storia con l’amante Ludovica, tenuta segreta perché secondo la Procura legata al movente del delitto. Parolisi avrebbe infatti ucciso la moglie per uscire da quel tunnel sentimentale in cui era sprofondato senza apparente via d’uscita.

Noi non sappiamo cosa possa realmente salvare dal giudizio del “popolo” un marito traditore, un uomo abituato a mentire tra le quattro mura domestiche ma sappiamo per certo che, dalla lettura della sentenza di primo grado, il popolo ha avuto quello che cercava ormai da tempo.

Sappiamo che spesso la possibilità di dire “giustizia è stata fatta”, il desiderio di avere tra le mani un colpevole, possano portare ad un epilogo in cui, per il bene della morale, della legge, della logica, della scienza, si mescolano i fatti vestendo la probabilità di certezza.
Ma bastano i dubbi e le reticenze per mandare un uomo all’ergastolo?

 

di Alberto Bonomo