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Il nostro organismo come una macchina perfetta aggiusta e ripara i danni che nel corso di una vita investono le nostre esistenze
Processi di cicatrizzazione lunghi giorni per le ferite della carne, interminabili anni per quelle che lacerano la mente, il cuore e i ricordi. Gli strati di pelle si rigenerano come una muta, miliardi di piastrine all’opera lavorano senza sosta per stendere un velo di tessuto fibroso  che purtroppo non potrà mai raggiungere tutte le alcove nascoste dentro il nostro corpo.

La mente non ha lembi da ricucire, li le ferite scorrono a sangue vivo, e noi assuefatti dal tempo, il più potente tra gli anestetici naturali andiamo avanti. Per cercare di immaginare di cosa si stia parlando forse basterebbe vivere anche solo per un giorno la vita dei genitori del piccolo Daniele Gravili.

Storia amara
Questa è una storia che lascia l’amaro in bocca, come quegl’incubi che sembrano reali, come sognare di cadere da un precipizio e vivere questa lucida sensazione nella vita vera. Immaginate dunque una assolata giornata di settembre del 1992, è un sabato, primo pomeriggio del 12 per l’esattezza; a Torre Chianca nei pressi di Lecce, in un piccolo complesso di villette i coniugi Gravili sono alle prese con le valigie di fine estate mentre il figlio Daniele come ogni bambino del posto è intento a giocare nel cortile privato di casa.

Tutto apparentemente normale, fotogrammi di una pellicola già vista. Una vita come tante altre, se non fosse che a questa pellicola vengono sottratti fotogrammi importanti, perché quello che si vedrà dopo uno schermo nero per circa un’ ora sarà lo sguardo terrorizzato di un ragazzino di 12 anni e la macabra scoperta avvenuta sulla spiaggia  nelle vicinanze del complesso di casa Gravili.

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Quello che da lontano poteva sembrava un bambolotto portato dalla marea era invece il corpo di Daniele. Il piccolo di soli tre anni è in fin di vita. Le urla sconvolte del giovane si levano in tutta la zona raggiungendo un vigile del fuoco che prontamente arrivato sul posto e scioccato anch’ egli dalla raccapricciante scena tenta in tutti i modi di rianimare quel povero corpicino che non dava segni, ma era ancora vivo. Sono tristi frangenti, vani tentativi di respirazione bocca a bocca, vane le preghiere, vana la corsa in ospedale.

Un uomo nel mirino
Alle tre del pomeriggio, arrivati al pronto soccorso tutto sembra ormai scritto. Il piccolo resisterà fino a sera prima di arrendersi alla morte nel reparto di rianimazione dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce. Pare che un mostro qualsiasi abbia deciso per la vita di Daniele e segnato per sempre quelle di un padre e di una madre. Un’ora, e niente è più come prima.

Rapito, abusato e come l’autopsia confermerà: soffocato dalla sabbia durante i tentativi di difesa. Da qui in poi la vicenda si colora di un grigio sbiadito e di una fitta nebbia d’omertà. Nessuno vide l’uomo portare via il bambino, nessuno vide nulla di sospetto, i cani non abbaiarono e tutti stavano come barricati nelle proprie abitazioni, intenti forse nella pennichella pomeridiana al riparo dal caldo.

Circa 20 persone presenti a quell’ora sulla stessa spiaggia non ricordano nulla che fosse degno di nota, anche se quel corpo martoriato sulla sabbia cocente in realtà grida una verità molto diversa. Come se non bastasse le stranezze non finiscono qui, protagonisti i medici del pronto soccorso  dell’ospedale di Lecce.

E’ possibile che, dall’arrivo nella struttura avvenuta all’incirca alle 3 del pomeriggio, passino circa 4 ore prima che venga palesate la violenza sessuale ai danni di Daniele? Un arco di tempo infinitamente utile per la fuga del mostro e quindi l’evidente ritardo dell’ipotetica identificazione, mediante l’analisi di quelle tracce di liquido seminale ritrovato sulle garze con cui era stato pulito il corpo.

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Le prime 24 ore dopo l’omicidio non portarono a nulla di buono e questo non è mai un buon segno. Sono passati vent’anni e l’assassino del piccolo non ha ancora un volto né un nome. Tanti i sospetti, nessun colpevole, molte le polemiche.

La politica     
Il senatore dell’allora Pds, Giovanni Pellegrino, presentò un’interrogazione parlamentare al Ministro dell’Interno, sottolineando la differenza tra il dispiegamento di forze per Foligno, nel caso della scomparsa di Simone Allegretti, e per Lecce. Pellegrino disse che, per tentare di risolvere il delitto di Foligno <<è stato attrezzato uno speciale gruppo investigativo e il Ministero, per ottenere un più intenso impegno e una più ampia collaborazione, ha previsto una taglia per la cattura del colpevole>>.

A Lecce, invece, <<nessuna di queste speciali e apprezzabili misura risulta essere stata adottata o è allo studio>>. In ogni caso, l’inchiesta che ne scaturì venne archiviata, dopo indagini condotte a 360 gradi dagli inquirenti coordinati, come detto, dal magistrato Cataldo Motta, attuale procuratore distrettuale antimafia di Lecce, tutto si mise contro le indagini a partire dall’inspiegabile omertà della gente:<< so solo che la collaborazione che siamo riusciti ad avere con la gente nei delitti di mafia è superiore a quella che ci hanno dato per Daniele>>. 

Le comparazioni del dna ritrovato con quello dei sospettati, ad oggi 19 (uno fuori dall’Italia), non ha prodotto nessun riscontro positivo; frustrazioni, piste a vuoto per questa storia che rientra tra i 27 casi italiani irrisolti di cui si è occupata anche l’unità delitti insoluti; noi nel frattempo continueremo a definire la storia di Daniele come un incubo anche se da un incubo di solito ci si risveglia.

di Alberto Bonomo