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Che si tratti di un maratoneta, un atleta olimpionico o un amante della sedentarietà, ogni uomo è trascinato da una folle corsa, quella affannosa della ricerca della felicità. Ciò che resta poco chiaro è il motivo che ci spinge verso questa tendenza: conoscere l’essenza della gioia o fuggire al dolore? Se la prima è il tesoro da scoprire, il dolore  è invece noto a tutti, ma ognuno lo percepisce e lo manifesta  in modo del tutto personale.

L’aspetto relativista del dolore lo si coglie nel mondo dell’arte che non è da intendere solo come fonte di bellezza ma come il più potente veicolo di emozioni, come “l’espressione più rapida del pensiero”( Angela Vattese).

Numerose sono  le opere dedicate alle battaglie vinte dagli eroi mitologici. “Decantare le gesta” rappresenta un imperativo categorico al quale gli autori non possono sottrarsi. La smania di gloria dei vincitori offusca la sofferenza dei vinti.

Tra gli  affreschi dedicati al duello tra Achille ed Ettore, si dimostra fortemente rappresentativo quello del XIX secolo, che raffigura l’eroe Greco mentre trascina il cadavere del nemico troiano. Il desiderio di riscatto del Pelide prende il sopravvento sulle immagini strazianti.

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Si consuma una scena di dolore che non sembra ricoprire un ruolo importante nel copione dello spettacolo della morte. Raffigurare il tema dei sacrifici in onore delle divinità suscita particolare interesse per le personalità artistiche più imponenti.

Nel “sacrifico di Isacco” Caravaggio riprende Abramo mentre sta per uccidere il figlio per adempiere alla volontà di Dio. Il gesto non si compie per la venuta di un angelo del Signore che blocca il braccio di Abramo indicando un ariete da immolare come sacrificio sostitutivo. In questo caso emerge la fede come principale antidoto che scongiura l’adempiersi di un dramma.

Se pur ogni grande artista agisce rispettoso dell’epoca storica in cui vive, il committente al quale resterà fedele in eterno è il suo animo. L’angoscia e lo smarrimento che prova Edvard Munch si riflettono nella sua opera   – “L’ urlo” – , che riprende un’esperienza realmente accaduta.

L’autore si trova su un ponte in compagnia di due amici, quando all’improvviso un senso di isolamento lo porta ad estraniarsi dal resto del mondo. E’ dolore che ruba la scena, si rende protagonista, assume contorni confusi e a Munch non resta altro che costatare che “un grande urlo infinito pervade la natura.”

La sofferenza individuale genera alienazione; cosa scateni nell’animo umano la condivisione di un dramma collettivo, però è difficile da comprendere. Se il dolore fosse come lo spazio fisico, potremmo dire che diminuisce in base alle persone che lo dividono.

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A volte però non è che la somma di ogni singola debolezza. In seguito all’olocausto sono state tante le opere realizzate da chi ha vissuto nei campi di concentramento.

David Olere, che fu internato ad Auschwitz, sopravvisse e dipinse ciò che aveva subito come avrebbe potuto fare se avesse avuto a disposizione una macchina fotografica . Nell’opera di  Olere non vi è nulla di sentimentale o di sacralizzante: lo spettatore è posto di fronte alla verità essenziale della memoria visiva. Tanto è vero che le sue opere acquistarono una tale importanza da essere utilizzate nei processi del dopoguerra nazista.

Per quanto l’arte possa conferire un aspetto relativista all’espressione del dolore… ci sono alcune opere che sono dotate di un valore universale, riuscendo a superare ogni tipo di diversità.

Lo strazio di una madre che accoglie tra le sue braccia un figlio morto produce un sentimento al quale nessuno può mostrarsi insensibile. Michelangelo probabilmente immaginava proprio questo quando realizzando “la Pietà” materializzava il suo capolavoro.

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Che si tratti di un maratoneta, un atleta olimpionico o un amante della sedentarietà, ogni uomo è trascinato da una folle corsa, quella affannosa della ricerca della felicità. Ciò che resta poco chiaro è il motivo che ci spinge verso questa tendenza.

di Roberta Della Torre