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“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”
Non è difficile comprendere quanto poco realistiche siano le parole recitate dall’art. 27 della Costituzione Italiana. Il profondo divario tra diritto scritto ed esercizio dello stesso trova riscontro nella sentenza di condanna emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a danno del nostro Paese.

L’Italia, violando l’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, è chiamata, per la seconda volta, a ridefinire il “piano carceri”, dal quale emerge l’allarmante problematica del sovraffollamento detentivo, vista come conseguenza di uno Stato che ha riposto nel dimenticatoio la peculiare funzione della pena moderna: quella rieducativa.

Il numero dei detenuti che popola le carceri è spesso il doppio di quello che le strutture dovrebbero contenerne, impedendo così al “fantomatico microcosmo rieducativo” di sviluppare un percorso di correzione e introspezione psicologica. Ne deriva che, le carceri italiane, a detta delle statistiche, riconsegnano alla società, persone non depotenziate nel produrre il crimine, ma frustrate al tal punto da ricommetterlo.

È riduttivo e al contempo banale pensare che il sovraffollamento delle carceri sia dovuto alla crescita del numero di reati commessi nel territorio italiano. L’ aumento esponenziale della popolazione, nel “paese della non libertà”, è il risultato di una serie di leggi criminogene che producono carcere.

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Gli stranieri rappresentano più di un terzo del 40% della popolazione carceraria detenuta in attesa di giudizio; segno, questo, di una legge, la Bossi-Fini, poco sensibile al tema immigrazione. Così come lo è la legge Fini-Giovanardi, nei confronti della tossicodipendenza: trenta detenuti su cento sono, infatti, reclusi perché “malati di droga”. Ma come potrebbe essere efficace una cura, se è la stessa medicina, il carcere, a produrre intolleranza?

I giudici della Corte Europea chiamano le autorità italiane a risolvere il problema del sovraffollamento, prevedendo, per i reati meno gravi, pene alternative al carcere. Inoltre, consigliano all’Italia di dotarsi, entro un anno, di un sistema di ricorso interno che dia modo ai detenuti di rivolgersi ai tribunali italiani per denunciare le proprie condizioni di vita nelle prigioni e avere un risarcimento per la violazione dei loro diritti.

L’istituzione della pena, già di per sé aspetto problematico della nostra società, sta attraversando una profonda crisi: ne vengono messi in discussione scopi ed obiettivi, la sua essenza giuridica e morale, ma anche la sua modalità pratica, caratterizzata da quella violenza psico-fisica che, a livello discorsivo, le stesse logiche istituzionali negano.

Perché, dunque, l’occultamento della violenza, qualunque essa sia, tra le mura detentive non urta ed infastidisce le coscienze pubbliche tanto quanto, ad esempio, la brutalità spettacolarizzata di una pena capitale?! Si rabbrividisce ascoltando sentenze di condanna a morte, legittimate da Paesi in cui tale tipo di “omicidio” è previsto, e si è quasi indifferenti di fronte alla violenza che si consuma a scapito dei nostri detenuti, le cui condizioni disumane non sono altro che un attentato alla nostra stessa Legge.

Qual è la differenza tra un giustiziato a morte e un reo condannato a vivere in tre metri quadrati di cella?

Alla coscienza sociale, la risposta!

di Annalisa Ianne