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«Il pentito pratica un percorso che corre inesorabilmente verso il basso. Non più messia, non più Rambo, non più mattatore, il pentito è un uomo al tramonto che ha perduto i pedali, viaggia a ruota libera ed è solo in attesa di una morte naturale e violenta». [Greco G. Monda D.
in Novecento Italiano raccontato da scrittori]

Tra i diversi strumenti che lo Stato ha utilizzato, e continua ancora oggi ad utilizzare per contrastare l’attività della criminalità organizzata di stampo mafioso, quello più importante è l’acquisizione di quel bagaglio di conoscenze proprio dei collaboratori di giustizia (conosciuti semplicemente come “pentiti”) perché affiliati a quelle consorterie criminose basate sulla segretezza e sul vincolo dell’omertà. La rottura della compattezza interna della mafia, determinata dal pentitismo, rappresenta la condizione (oltre che per combattere) anche per conoscere il fenomeno mafioso.

Per contrastare il fenomeno della “società criminale” (o “societas sceleris”), lo Stato non si accontenta di condannare gli esponenti mafiosi ma per avere di più “scende a patti” con gli adepti catturati.

Chi sceglie di collaborare con la giustizia non è pentito degli atti criminali che ha compiuto, semplicemente decide di raccontarli per avere in cambio dei benefici. Tale scelta diventa “consapevole” per due motivi. Il primo è la consapevolezza che matura quando si viene catturati, alternativa rispetto al vivere il resto della propria vita rinchiusi in una cella. Il secondo è evitare di finire ammazzati per mano dei propri “amici”.

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Naturalmente il percorso che spinge gli affiliati delle cosche a collaborare, indipendentemente dalla motivazione, si accompagna sempre ad un processo di trasformazione dell’identità individuale.

«Quella dei pentiti è una merce delicatissima, sono loro che scelgono il giudice a cui confessare, sono degli sconfitti che abbandonano un capo per servirne un altro, ma vogliono che sia affidabile, che sappia davvero usarli per colpire i loro nemici. È un do ut des che ha i suoi rischi: loro vogliono vendetta, noi giustizia».

Il collaboratore di giustizia è un persona che va alla ricerca di una nuova identità, affermandosi come testimone di professione, vendicatore della legalità infranta nel tentativo di sostituire l’identità del mafioso morto con una nuova: quella di collaboratore dello Stato.

I collaboratori di giustizia quindi – come riportato sul sito web della Camera – sono: «Persone che hanno un passato di appartenenza ad un’organizzazione criminale o mafiosa. Essi sottoscrivono un “contratto” con lo Stato basato sulla fornitura di informazioni che provengono dall’interno dell’organizzazione criminale, in cambio di benefici processuali penali e penitenziari, della protezione e del sostegno economico per sé e per i propri famigliari».

di Marco Arnesano