(foto fonte web)

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Urla, spari, suoni di sirene, caos, confusione, sgomento, paura, la gente si disperde, la radiomobile dei carabinieri riceve una comunicazione: «Gioielleria. Rapina a mano armata,  nessun ferito,  altezza “Corea”». I militari si mettono sulle tracce, chiedono una pattuglia d’ausilio, il pericolo è concentrato su uno o più  individui armati, dei quali non si conoscono ancora le intenzioni. La compagnia è in mobilitazione, si setaccia la zona, uomini in borghese e in divisa, cercano oggetti utili all’individuazione. Nulla di fatto e nel frattempo sono già passati 10 minuti.

All’improvviso ecco spuntare dall’incrocio di  via Manzoni, in gran velocità un’Audi A3, al volante una donna e una bambina di età  non superiore i 5 anni. C’è troppo movimento  e confusione, molte macchine di là prese dal panico sono corse via. Si prosegue con le ricerche  mentre  si raccolgono le testimonianze dai passanti, tra i tanti un uomo afferma di aver visto un tipo sospetto di mezza età,  di colore, con un giubbotto di pelle e pelato, correre come una saetta, verso “largo croce”, proprio mente succedeva il fatto. La deposizione è stata molto utile. Pochi minuti dopo infatti,  questo viene individuato, fermato e invitato in caserma per eseguire alcuni accertamenti.

L’uomo non parla bene l’italiano, è chiaramente spaventato, si dimena e cerca di scappare, cerca di esprimersi in francese, ma l’importante non era stare ad ascoltarlo, quanto portarlo presto via e interrogarlo. L’uomo inizia a piangere e chiedere aiuto, alza le mani e corre via, inizia l’inseguimento da parte di due appuntati e un brigadiere. La corsa durerà pochi minuti, preso e ammanettato, viene accompagnato per l’interrogatorio.  Le ricerche terminano.

Giunti in caserma, il fattore lingua non può essere trascurato. Con l’ausilio di un interprete, il soggetto  gridando spiega che si trovava nelle vicinanze, perché sua figlia, con la quale si trovava per fare la spesa nei pressi della gioielleria era stata rapita con la forza da tre uomini incappucciati, i quali puntando una pistola sulla bambina e una contro di lui, minacciavano di morte, mentre la portavano via.

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Preso dalla rabbia, e dallo strazio cercava di chiedere aiuto, ma avendo precedenti con la giustizia, e vedendo tutti quei carabinieri in zona, temeva di chiedere loro aiuto, credendo di essere scambiato per un complice che cercava di depistare e mettere i militari su altre tracce. «Sono un uomo di colore»,  afferma nella deposizione. «Noi neri ed extracomunitari, per voi italiani siamo il male per l’Italia, ci etichettate come ladri, malviventi e stigma della vostra cultura.

Vi prego credetemi, trovate  mia figlia». I carabinieri, che hanno l’occhio allenato e il cuore grande, riconoscono la verità di quelle parole, e decidono di fidarsi, ma nonostante ciò viene tenuto in stato di fermo per 24 h. La comunicazione si aggiorna: «Bambina di colore, rapita in zona “Corea”,  anni cinque, capelli ricci, indossa un vestitino rosa». Polizia e carabinieri del paese di Castel nuovo si mettono sulle tracce, uomini in borghese e della Digos, rastrellano la zona e il paese.

Ormai è passata un’ora dalla rapina, le ricerche iniziano a farsi complesse, si cerca anche nei paesi limitrofi. Piantonamenti stradali e posti di blocco ovunque; si teme il peggio, quando  nella radio di pattuglia la voce del capitano: «Incidente stradale sulla tangenziale nord in direzione “Porto Vecchio”. Via, via, via!!!» . Giunti sul posto, un’Audi a3, con al volante una donna bianca, e una bambina di colore vengono trovate in condizioni gravissime.

Gli operatori del 118 portano via entrambe. Si identifica la donna: Maria Castrocaro. Ma non è la Moglie del gioielliere? afferma l’appuntato Brambilla. Saliti in macchina, si dirigono verso il luogo preso d’assalto per interrogare il marito. Ma lui non c’è. Nel frattempo arrivano le prime notizie dall’ospedale. La bambina è stata operata e sta meglio, verrà dimessa presto. Il papà  viene portato dagli uomini della compagnia, dalla figliola per poi essere rilasciato definitivamente. La donna è in terapia intensiva. I medici non si pronunciano.

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Il gioielliere nel frattempo viene identificato dagli agenti di frontiere ai quali era giunta la descrizione. Viene tenuto in stato di fermo.  Con lui tre uomini senegalesi, arrivati in Italia da pochi giorni e in cerca di denaro, fermati anch’essi. Dopo due lunghe ore di interrogatorio, si definisce l’accaduto.

La rapina a mano armata compiuta ad opera della moglie, incappucciata per non destare sospetti, era stato  un deterrente per rapinare la figlia di Abil Hatcha, astuto ladro di gioielli, il quale dopo aver deciso di smettere con la malavita, giurò di denunciare i loro traffici  alle autorità giudiziarie, nel momento in cui avessero continuato con le minacce. Infastiditi dal carattere aggressivo, presuntuoso e pericoloso dell’uomo, i coniugi ingaggiano tre senegalesi, giunti in Italia da poco tempo, senza tetto e disposti a tutto per del denaro, cosicché potessero rapire la figlia e far collaborare Abil.

La comunicazione è un fattore determinante nell’analisi criminologica e preventiva di un reato. La lotta alla criminalità può esserci solo se si libera la mente da pregiudizi e stereotipi culturali, secondo cui la donna è meno incline a compiere reati, a differenza dell’uomo nero ed extracomunitario, il quale nella maggior parte delle volte nell’idea del uomo europeo è cattivo e omicida.

In una società multiculturale come la nostra, in cui le razze vengono a mescolarsi, è necessario esorcizzare l’acculturazione, secondo  cui alcune credenze, ideali e valori sono superiori  e più civili di altri.

In un’analisi criminologica, l’obiettività, l’osservazione e la comunicazione umana con l’interlocutore che si ha davanti, trascurando lingua, religione, paese, colore, devono essere fattori quanto più rilevanti per una più fruttifera e veloce risoluzione di un caso, abolendo gli inutili copioni sociali imposti dai rispettivi luoghi di provenienza.

 

di Vito Franco