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“Ma come faccio io a non piangere?”. Chissà se venerdì 1 febbraio avrà pensato a questa strofa dell’amico Venditti Zdenek Zeman, osservando la sua Roma uscire tra i fischi dell’Olimpico per la desolante sconfitta interna (2-4) contro il Cagliari e immaginando il capolinea del suo legame con il club giallorosso come poi confermato dalla decisione societaria presa la mattina successiva.

Più che un esonero, la fine di una relazione fra due innamorati un’altra volta assieme dallo scorso giugno (tredici anni dopo una dolorosa separazione), riavvicinati dalla travolgente promozione in A del Pescara allenato dal boemo – primo posto con novanta gol, la prova provata di Zemanlandia ideale senza fine più forte del tempo che scorre (Licata ’85, Foggia’ 91) – e dal desiderio di riscatto di una tifoseria ancora traumatizzata dalle trentotto puntate del “Luis Horror Scucchia Show”.

“Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”. Zeman nuovamente alla Roma. Stavolta per vincere, come aveva scritto sul suo sito Antonello Venditti. Ancora con quel Totti da sempre stimato dal tecnico ceco e contraccambiato – anche in questa stagione – da prestazione di valore e professionalità.

La ricetta della felicità. Almeno nelle intenzioni. Perché, nei fatti, “Sdengo” non ha mai goduto della piena fiducia dell’ambiente come capitato – per esempio – al suo predecessore. Fin dall’inizio. Ingaggiato da Baldini e Sabatini dopo i rifiuti di Villas Boas e Montella, mal supportato in una campagna acquisti poco coerente con il suo 4-3-3 fast and furios: tranne Balzaretti, Florenzi (chiesto anche a Pescara), Bradley, Tachtsidis, Goicoechea (suggeritogli oltre un anno fa dal compianto Franco Mancini), gli altri – Piris, Marquinhos, Dodò (soffiato al Manchester United nel marzo 2012), Castan (preso con Luis Enrique) e Destro (ottima mossa per aumentare gli abbonamenti) – idee di Sabatini. In aggiunta, uomini inadatti al suo gioco: Burdisso, lento e tatticamente poco malleabile; De Rossi, incontrista e non incursore; Pjanic, più palleggiatore che corridore; Lamela, atipico per il tridente d’attacco perché amante del pallone al piede piuttosto che del taglio nello spazio; se ha reso sopra le aspettative (dieci reti segnate finora rispetto alle quattro della stagione scorsa), è grazie all’applicazione durante gli allenamenti.

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Nei metodi di lavoro, la seconda ragione della crisi. Per convinzione personale (al risultato attraverso il sudore) e perché il suo calcio richiede tempo per essere assimilato, Zeman pretende molto durante la settimana dai suoi giocatori, solitamente sottoposti a due doppie sedute incentrate su atletica e tattica. Menu indigesto per un gruppo reduce da un anno in fraschetteria: sedute singole, niente richiamo fisico nelle vacanze natalizie, abolizione del ritiro prepartita per le gare interne. Mancavano solo porchetta di Ariccia e vino de lì Castelli…

Parte dello spogliatoio in disaccordo con il nuovo programma, tanto che nella settimana di Roma-Atalanta – Osvaldo e De Rossi esclusi per scarso impegno – girava voce di un Taddei portavoce di questi disagi. «Mister, ma quando si fa un po’ di scarico?». Boemo lapidario ed eloquente. «Scarico si fa la domenica».

A completare il quadro, le reazioni poco edificanti di Marquinho – spunto diretto alla panchina per la sostituzione di Catania – e Stekelenburg – intervista a un giornale olandese dove attacca la società per le scelte sui portieri – perché poco impiegati.

In un’atmosfera tendente all’anarchia, invece di schierarsi con l’allenatore – come da lui richiesto (conferenza stampa prima di Bologna-Roma) – punendo gli indisciplinati e i lassisti, la dirigenza è rimasta passiva e, al contrario, ha indebolito proprio Zeman, delegittimato da Sabatini all’indomani del 3-3 del “Dall’Ara” con parole «Stiamo valutando se esonerare l’allenatore» certificanti anche un’inadeguatezza manageriale: perché nel mister hai fiducia (e lo tieni), oppure lo mandi via. I media – ostili al timoniere e favorevoli all’equipaggio – hanno esasperato un clima che, complice qualche risultato deludente in apertura di 2013, ha condizionato parte dei giocatori, che contro il Cagliari avevano “paura di sbagliare”. E hanno sbagliato (Goicoechea) mentre altri hanno tirato i remi in barca, sapendo che alla fine avrebbe pagato chi durante la settimana chiedeva loro – come da Cinisi a Pescara – impegno e sacrificio. E così è stato.

Nell’album dei ricordi? Il 4-2 alla Fiorentina del tanto incensato Montella (eliminato anche in coppa Italia); il 3-1 in casa dell’Inter; l’altro 4-2, al Milan, prima di Natale, apogeo e ultimo bagliore di Zemanlandia. La breve alta marea boema ha valorizzato Marquinhos e Florenzi, ha spinto la squadra alla temporanea (manca il ritorno) finale di coppa Italia e ha lasciato sulla spiaggia del campionato quarantanove reti che fanno della Roma il miglior attacco nonostante l’ottavo posto in classifica.

Zeman ha dato “tutto e dal profondo”, come ha dichiarato egli stesso dopo l’esonero, per un amore forse “illogico e disperato”, vista la serenità che avrebbe respirato in una Pescara che non voleva lasciarlo partire. Da parte sua, però, alcun rancore verso nessuno.

Perché «la Roma cammina sempre avanti» ha ricordato a un tifoso mentre salutava Trigoria per l’ultima volta. E non c’è da stupirsi. Dopotutto, “odiarsi mai per chi si ama come noi”.

di Tommaso Nelli