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(foto fonte web)
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Una giovane recluta dell’FBI, per venire a capo di un serial killer che uccide e scuoia le sue vittime, cerca di collaborare con un brillante psichiatra tenuto in cella d’isolamento per aver ucciso e divorato alcuni suoi pazienti.

Dal romanzo di Thomas Harris; uno dei thriller più famosi di tutti i tempi, il migliore degli anni ’90 insieme a “Se7en” di David Fincher. Ha aperto la strada a molte innovazioni nel genere: l’apertura a un linguaggio più coraggioso e meno ipocritamente educato nella rappresentazione del Male (di impressionante forza visiva la scena di Buffalo Bill che si trucca), la definitiva affermazione di uno stile più asciutto e meno votato alla vuota ricerca dell’effettaccio alla Alan Parker (strada già tracciata da Mann nel 1986 con “Manhunter”, sempre tratto da Harris), uno dei villains più fascinosi e disturbanti della storia (eppure pare di scorgere qualche filo di gigioneria nella memorabile interpretazione di Anthony Hopkins).

Film pionieristico nel sottogenere del thriller con serial killer, ancora ben lungi dall’esaurirsi. Terzo e finora ultimo film ad aver centrato l’en plein di Oscar nella cinquina principale (film, regia, attore protagonista, attrice protagonista e sceneggiatura): ne meritava almeno un sesto, quello al montaggio (di Craig McKay), capace di invenzioni e passaggi folgoranti come la sequenza in alternato del killer “al lavoro” ignaro che l’FBI stia per fare irruzione in casa sua, risolta con un notevole colpo di scena.

Doppiaggio italiano ottimo nelle interpretazioni (in particolare l’Hannibal Lecter di Dario Penne) ma inspiegabile nelle traduzioni: ci vuole così tanto per capire che l’inglese “quid pro quo” equivale al nostro “do ut des” e non all’equivoco “qui pro quo”?

Il silenzio degli innocenti

(Jonathan Demme, 1991)
genere: Thriller

http://cinema-scope.org/

recensione di Giuseppe Pastore