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(foto fonte web)
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La nostra infinitesimale misura paragonata all’eternità è cosa nota, per cui alla domanda: “Cosa ti spaventa più della morte?” mi viene da rispondere quasi istintivamente, la libertà. Esistono storie, eventi, logiche che sfuggono totalmente al nostro controllo, per cui l’unica vera magra consolazione è la possibilità di esistere e di godere appieno, come più ci aggrada, di questo fugace miracolo curioso, facendone l’uso migliore.

Questo privilegio inestimabile che è la vita libera, si estrinseca però in due direzioni: siamo liberi nei confronti di noi stessi e siamo liberi nei confronti del prossimo, fin quando questa libertà non invade lo spazio di chi ci sta accanto. Essere parte integrante della “collettività” dà la possibilità di godere dei diritti concessi dallo stato ma impone di rispettarne i doveri; tra questi vi è, come una clausola in grassetto, l’obbligo di assoggettarsi alle regole che la società in cui vivi predispone e che lei, a suo insindacabile giudizio, avrà il potere un giorno di punirti laddove sbaglierai, dire chi sei, cosa puoi fare e cosa non fare; insomma, avrà potere sulla tua libertà di essere umano.

Fin qui nulla da eccepire, sacrosanto il basilare principio della responsabilità secondo cui chi sbaglia paga, ma quel che dovrebbe essere altrettanto scontato è la posta in palio. Nel corso dei secoli, nella storia, milioni di uomini hanno combattuto per la propria libertà, molti di loro hanno sacrificato la vita lottando solo per garantire questo status ai propri figli e a chi sarebbe venuto dopo, come un dono da custodire che non ha prezzo a pagare. La libertà sopra ogni cosa, fondamento di una società evoluta che sia saggia, matura e giusta.

E’ possibile allora amministrare la legge tutti i giorni e perdere di vista “il valore dei valori”? E’ possibile leggere e rileggere ogni giorno articoli che parlano di giustizia uguale per tutti, di diritti personalissimi inviolabili e paradossalmente allontanarsi dal vero significato di queste parole? Eppure capita, e quando ciò accade purtroppo, sono errori imperdonabili, sono pezzi di vetro che non potranno mai essere ricomposti, sono vite distrutte che subiscono la castrazione dell’anima. Lo sa bene Giuseppe Gulotta, per 22 anni ingiustamente rinchiuso dentro un piccolo loculo di cemento.

Ricorda bene questo siciliano di 56 anni quando ancora diciottenne perse la sua vita libera; era il 27 gennaio 1976. Da quel maledetto martedì sera di 43 anni fa lo Stato in nome della giustizia lo chiamò Assassino. Quella notte la stazione dei carabinieri di Alcamo marina, in provincia di Trapani fu attaccata; una fiamma ossidrica per abbattere il portone della casermetta e poi l’inferno. I corpi del giovane carabiniere Carmine Apuzzo e dell’appuntato Salvatore Falcetta giacevano nelle loro brande trivellati di colpi, forse un improvviso ma vano tentativo di reazione.

La dinamica del raid apparì subito al quanto illogica ma opera di professionisti; inspiegabile come i due gendarmi non si fossero accorti di nulla fino all’ultimo. Il movente fu poco chiaro, le due possibili piste furono da subito quella mafiosa (l’anno prima erano stati uccisi l’assessore ai lavori pubblici di Alcamo, Francesco Paolo Guarrasi, e il consigliere comunale Antonio Piscitello) e quella dell’attacco terroristico ad opera delle Br (arrivò un comunicato di rivendicazione, subito dopo smentito dalle stesse Br).

Le indagini furono affidate alla squadra investigativa comandata dal colonello Giuseppe Russo (poi ucciso dalla mafia il 28 agosto 1977 e insignito della medaglia d’oro al valor civile); si lavorava incessantemente per arrivare nel più breve tempo possibile alla soluzione del caso, con la cattura dei responsabili di quell’ignobile carneficina. Passarono poche ore dal fatto, prima che saltasse fuori un nome importante nella vicenda, quello di Vesco Giuseppe; un carrozziere della zona, monco di una mano, che fu trovato in possesso di armi e oggetti, senza molti dubbi riconducibili alla caserma di Alcamo.

L’interrogatorio, tutt’altro che una passeggiata, “costrinse” l’uomo, pur di salvarsi dalla stretta morsa degli inquirenti in cerca di colpevoli da accusare, a fare i nomi di alcuni ragazzi del posto, tra cui quello di Giuseppe Gulotta. La menzognera confessione ingolosì gli investigatori che proprio in quel momento smarrirono definitivamente i concetti di giustizia prima e libertà dopo. Un giovane muratore catapultato in pochi minuti da casa alla caserma e che, spaventato, poco comprendeva le sue responsabilità nella storia; un ragazzino sotto torchio per ore e ore in un clima di botte, terrore e violenza. «Vi dico tutto quello che volete, basta che la smettete».

Nella testa di quel ragazzino terrorizzato ciò che contava era farli smettere, poco importava se con la confessione avrebbe firmato la propria condanna a morte. Quando arrivò al carcere di Trapani e finalmente incontrò i magistrati, provò a dichiarare la sua verità: << Lei conferma quello che ha detto a verbale? >>. << Se ho fatto quelle dichiarazioni è perché sono stato picchiato tutta la notte >>. Secondo Gulotta gli risposero: «È impossibile che per le botte si confessi un omicidio».

Da questo punto in poi la storia giudiziaria di Gulotta si fonderà su quella testimonianza iniziale, le prove labili in possesso degli inquirenti e la modalità con cui si sono svolti gli interrogatori; Vesco, unico testimone chiave, si toglierà la vita in carcere da lì a poco. Le vicende giudiziarie raccontano di una prima sentenza della corte di Assise di Trapani che assolve Gulotta per insufficienza di prove.

Nel 1982 si passa alla Corte d’Appello di Palermo che ribalta la sentenza: ergastolo per Gulotta. Si accumuleranno i processi, sino a quando il 19 settembre 1990 la sentenza diventerà esecutiva e la prigiona, una nuova casa per Giuseppe. Solo nel 2010 arriverà la libertà vigilata. I rimorsi di coscienza sono terribili, li proverà sulla sua pelle l’ex brigadiere Renato Olino. L’uomo aveva già provato a raccontare cosa accadde durante gli interrogatori di Vesco e Gulotta, ma nessuno fu mai “interessato” a sentire quella verità scomoda.

Sul caso tornerà la televisione con la trasmissione Rai Blu notte ricostruendo la storia seppur con alcune inesattezze, motivo che spingerà nuovamente Olino a farsi avanti per raccontare. Miracolosamente la magistratura di Trapani aprirà un’inchiesta e arriverà anche il processo di revisione: il 26 gennaio 2012 il procuratore generale della Corte d’Appello di Reggio Calabria chiederà il proscioglimento di Giuseppe Gulotta da ogni accusa; proscioglimento raggiunto in via definitiva il 13 febbraio 2012.

Sulle cause di un’indagine condotta così male, s’indaga ancora. Giuseppe Gulotta quando lo accusarono di aver ucciso due carabinieri era un semplice muratore, con il suo carattere, oggi onestamente non sappiamo più chi è << secondo i medici ha subito uno stravolgimento della personalità pari al 70 per cento >>. Quella notte di gennaio lo stato ha ucciso un uomo libero. “Mi chiamo Giuseppe Gulotta. Per trentasei anni sono stato un assassino.

Oggi finalmente mi posso abituare a un’altra vita, quella che non ho mai avuto. Una vita da uomo libero, perché innocente lo sono sempre stato. Avevo diciotto anni quando sono stato accusato di un crimine orrendo: l’omicidio di due ragazzi, due carabinieri, di notte, nella caserma dove prestavano servizio, ad Alkamar.

Un atto vile, ignobile. Per trentasei anni sono stato un assassino dopo che mi hanno costretto a firmare una confessione con le botte, puntandomi una pistola in faccia, torturandomi per una notte intera. Mi sono autoaccusato: era l’unico modo per farli smettere. Da lì in avanti non ho avuto un attimo di pace.”

di Alberto Bonomo