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Vi parliamo di una storia difficile, così complicata che potremmo equipararla ad un cielo buio, ma di quel buio che a un certo punto si riempie di stelle e ricolma il cuore di conforto. È la storia della meravigliosa luce di Padre Puglisi, il piccolo prete di statura ma così immenso nella sua forza morale e spirituale da aver compiuto un vero e proprio miracolo: la conversione di Giuseppe Carini, un uomo che brancolava all’imbocco della strada dei cosiddetti “uomini d’onore” ma con la venuta di Don Puglisi cambiò la sua meta vestendola di bene. 3P è il prete di Brancaccio che noi di Altriconfini.it vogliamo ricordare per le sue opere di riqualificazione in quello che negli anni ’90 era un quartiere che odorava di mafia e vogliamo farlo discorrendo di un libro scritto dal giornalista Roberto Mistretta, intitolato “Il miracolo di Don Puglisi’’.

“Roberto parliamo di questo meraviglioso libro dedicato alla memoria di Don Puglisi. Com’è nata l’idea di scriverlo?
Vent’anni fa, come la stragrande maggioranza degli italiani, ebbi notizia dell’assassinio di questo mite sacerdote a Brancaccio. E rimasi molto colpito dall’ennesima ferocia della mafia. In quegli anni, a Palermo, era in atto la Primavera palermitana grazie a “La Rete” di Leoluca Orlando eletto sindaco col 75% delle preferenze. Ricordo che durante la campagna elettorale di Orlando, gli chiesi come si potesse parlare di rivoluzione culturale mentre a Palermo la mafia continuava ad assassinare inermi uomini di Chiesa.

Poi, tre anni fa, mentre lavoravo alla stesura di “Giudici di frontiera-interviste in terra di mafia” a sei magistrati impegnati in prima linea contro cosa nostra (Salvatore Sciascia Editore), intervistai il giudice Giovanbattista Tona, che da universitario iscritto alla FUCI, fu allievo spirituale di Padre Puglisi. Il dott. Tona, seppure a distanza di tanti anni, parlava di don Pino con affetto filiale e grande commozione, tant’è che intitolai quel capitolo “L’insegnamento di don Pino Puglisi nell’esercizio giornaliero del proprio dovere”.

Il seme era stato gettato. Quel seme mise radici e lo scorso anno, sentii forte la necessità di raccontare aspetti inediti della vita di questo straordinario testimone e martire del nostro tempo.

Come sei venuto in contatto con Giuseppe Carini? Ci puoi raccontare quali sono state le tue impressioni, 
sensazioni, stati d’animo nell’incontrarlo?
Fu proprio il giudice Tona, amico dai tempi dell’università di Giuseppe Carini, a mettermi in contatto con lui che vive in località segreta ed ha usufruito del cambio di generalità del programma protezione testimoni, per avere testimoniato in due processi contro gli uomini di cosa nostra. Incontrarlo non è stato semplice, ma dopo lunghi scambi epistolari via mail, lo scorso settembre siamo riusciti a vederci per alcuni giorni in una città concordata. Ovviamente ero molto teso ma determinato a conoscere tutto del suo percorso di vita vissuto con don Puglisi. Non fu facile all’inizio fare aprire Giuseppe Carini. Quei ricordi sono dolorosi. Addirittura avevo persino deciso di rinunciare al progetto e una sera gli parlai a cuore aperto: se lui, che aveva vissuto fianco a fianco con don Puglisi non riusciva a rendermelo vivo, di carne e sangue, come avrei potuto a mia volta rendere viva ai lettori la loro storia? Il giorno dopo, Carini, dopo una notte insonne, e con gli occhi gonfi di pianto, mi disse che avevo ragione e finalmente aprì il suo cuore alle mie domande. Ed è così che ho potuto scrivere questo libro.

Don Puglisi era una figura di riferimento per l’allora disagiato quartiere di Brancaccio. In che modo è riuscito a farsi ascoltare e a rendere partecipi delle sue iniziative di recupero tutti coloro che venivano in contatto con lui?Brancaccio era quartiere disagiato ieri come lo è oggi. Non è cambiato poi molto. E i residenti lo sanno bene. Certo c’è più coscienza civica dopo il “passaggio” di padre Pino Puglisi, o 3P come amava farsi chiamare. Ci sono più servizi, c’è anche la scuola media che all’epoca non esisteva ed oggi è dedicata proprio a don Puglisi. Don Puglisi diventò ben presto punto di riferimento sia del Comitato Intercondominiale capeggiato da Giuseppe Martinez, Mario Romano e Peppino Guida che lottava per avere i normali servizi che spettano a normali cittadini di una normale città, ma Palermo non è mai stata una città normale e Brancaccio, quartiere natale di una signoria mafiosa, ancora meno. Don Pino diventò punto di riferimento anche dei giovani e dei bambini e degli anziani e delle mamme, perché parlava poco ed agiva molto. Era disponibile con tutti, ad ogni ora. E il suo agire non era mai di condanna, ma di autentica solidarietà cristiana. Lui viveva per gli altri, con gli altri e in mezzo agli altri, e in un mondo dove trionfano superficialità ed egoismo, la gente che soffre sa riconoscere l’autenticità di chi agisce senza altri fini ma solo per amore del prossimo. E i risultati si toccano con mano. Don Pino era diventato il faro di Brancaccio. E la sua opera illuminava gli angoli bui di un quartiere in mano alla mafia.

Tra gli obiettivi primari che Don Pino s’ era dato, il recupero dei bambini e dei ragazzini di strada aveva la priorità”. Perché?
Don Pino si dedicava in particolare al recupero degli “scanazzati”, ovvero bambini randagi che crescevano in strada e preda dei pericoli propri della strada: illegalità, abusi sessuali, analfabetismo. Erano loro la futura manovalanza di cosa nostra, ma prima c’era stata la sottomissione. Come scrisse don Puglisi in una sua relazione, alcuni degli scanazzati che non sottostavano alle regole non scritte della mafia e rubavano, erano spariti dall’oggi al domani. “Forse –scrisse amaro 3P- li ritroveremo dentro qualche pilastro di cemento”.

Erano questi bambini e ragazzini, vittime innocenti di modelli deviati e devianti, il suo cruccio principale, tant’è che dapprima li fece avvicinare alla parrocchia grazie al gioco (calcio soprattutto), cominciò ad educarli al rispetto delle regole, li recuperò grazie ai corsi di alfabetizzazione, e offrì modelli di vita alternativi per farli crescere con la consapevolezza che una scelta è sempre possibile. Se raddrizzare un albero adulto è processo arduo, raddrizzare un alberello sostenendolo con un adeguato tutore è fattibile. Lui era il tutore e i ragazzini di Brancaccio i suoi alberelli da fare crescere sani e dritti per dare buoni frutti.

Lo ricordo con le sue stesse parole: “I primi obiettivi sono i bambini e gli adolescenti. Con loro siamo ancora in tempo, l’azione pedagogica può essere efficace, con gli adulti è invece tutto più difficile. Con i bambini non si devono fare discorsi filosofici, bisogna invece aiutarli a capire la loro dignità umana, a dare un senso alla loro vita. E già a quell’età non è semplice, perché tanti bambini sono costretti a lavorare o rubare. E tante bambine vengono costrette a fare di peggio, perché esistono nel quartiere anche casi di prostituzione minorile. Niente teorie psico-pedagogiche astratte allora. Il bimbo di queste famiglie non può capirle. Capisce invece i gesti che si fanno, i momenti di gioco, di convivenza, vissuti con  nuovo stile rispetto a quelli che conosce a casa. Ecco, il bambino può cogliere modelli di comportamento anche guardando due volontari che si trattano con garbo e  rispetto, due adulti che sono in sintonia. Il loro comportamento è già di per sé un segno. Questo dà ai bambini una possibilità di vedere la vita in modo diverso, di verificare che ci sono regole da seguire, che non è giusto barare perché si perde la stima degli altri. Mentre in famiglia, nell’altro ambiente, chi bara, chi sa arrangiarsi, chi è il più furbo, ha più consenso. Per i giovani è molto importante poter contare sul consenso del gruppo, della società.  È quello che la mafia chiama “onorabilità”. Per questo bisogna unirsi, dare appoggi  esterni al bambino, solidarietà, farlo sentire partecipe di un gruppo  alternativo a quello familiare”.

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Giuseppe Carini racconta che il suo percorso di conversione ha avuto inizio con l’accoglimento della richiesta di Don Pino il quale lo invitò a dedicare un’ora del suo tempo alla parrocchia. Carini afferma: ”Ad ogni passo mi allontanavo sempre più dal baratro…mentre lo facevo lasciavo galleggiare nell’ovatta di chi non sa decidere gli oscuri pensieri che avevano condizionato tutta la mia vita. Stavo cambiando in meglio”. Cosa ti hanno trasmesso queste parole?
La consapevolezza che i miracoli più autentici ma anche assai più difficoltosi da individuare e comprovare, non sono soltanto quelli che sanano fisicamente le sofferenze, bensì quelli che incidono nel profondo dell’anima e cambiano le persone “dentro”, salvandole dalle perdizione. Giuseppe Carini, durante il nostro incontro, è tornato a quei giorni di Brancaccio con la sofferenza propria di chi vive sulla sua pelle, la consapevolezza di essere stato ad un passo dal lordarsi le mani di sangue. E io ho vissuto con lui quei momenti, quei travagli, quelle sofferenze. Ho fatto mie le sue notti insonni e quando ho sbobinato le circa 50 ore di registrazione, ho assemblato il materiale per dare “rotondità” alla narrazione. Francamente non so dove finiscono le parole di Carini e cominciano le mie. Diciamo che anch’io sono cambiato in meglio dopo avere “incontrato” Padre Pino Puglisi.

Perché Don Puglisi era diventato così scomodo a Brancaccio?
Rispondo con le parole di suor Carolina Iavazzo, una delle religiose che lo aiutava in parrocchia: “Padre Puglisi, ogni giorno che passava, tirava fuori dal suo cassetto un pezzetto di sogno e stava per completare il suo puzzle, quando qualcuno, la mafia, ha spento per sempre questo sogno meraviglioso che solo pochi uomini riescono a realizzare”. Il suo sogno fu la realizzazione del Centro Padre Nostro per offrire un punto di incontro e socializzazione a chi era perduto e preda di mille pericoli in strada.

La mafia fece di tutto per impedire la realizzazione di tale progetto, basti dire che in una notte il prezzo d’acquisto dell’immobile lievitò di cento milioni di lire di allora (vent’anni fa), ma non aveva fatto i conti con la tenacia di don Pino, che si inventò di tutto, aprendo un conto corrente con appena 150 lire e in tale conto confluirono donazioni pervenute da ogni parte del mondo.

Don Pino era diventato scomodo perché mostrava coi fatti che vivere con modelli educativi completamente diversi da quelli proposti dalla mafia, ovvero modelli imperniati su una distorta forma di rispetto che lasciava in strada morti ammazzati, (quando andava bene e non si scompariva vittima della lupara bianca), non solo era possibile, ma era di gran lunga da preferire perché assicurava rispetto autentico basato sull’esercizio del proprio dovere e sulla dignità che spetta ad ogni essere umano. Don Pino amava la vita, e non avrebbe mai voluto vedere orfani e vedove come succedeva  a Brancaccio. La sua opera di evangelizzazione predicava la bellezza della vita, il miracolo stesso della vita. La mafia invece disprezza la vita, la mafia è impregnata di morte. Il contrasto è evidente. Don Pino agli occhi dei mafiosi personificava quel contrasto, da qui l’illusione che togliendo di mezzo lui, anche i contrasti sarebbero spariti. Oggi don Pino è più vivo che mai, perché la forza della vita da sempre è stata più forte della morte e il suo assassinio è stata una delle più cocenti sconfitte subite dalla mafia. Anche il suo assassino materiale, Salvatore Grigoli, detto il cacciatore, s’è pentito.

Don Pino rappresentava l’antimafia nei suoi gesti quotidiani. Cosa significa?
Quello che abbiamo appena detto. Don Pino parlava poco ma agiva molto. I mafiosi all’inizio tentarono di blandirlo e di corromperlo con donazioni che don Pino rifiutò. E per dare un segnale ben preciso e netto, evidentemente di aperta rottura con una certa tradizione di vecchia data, non fece più passare il cesto delle offerte durante la celebrazione della messa, ma lo fece collocare all’ingresso della chiesa, perché chi voleva, in anonimo, poteva donare secondo le sue disponibilità e chi, al contrario aveva necessità, avrebbe potuto prendere il tanto che gli occorreva. Più chiaro di così! Come chiarissimo fu un altro segnale: fare rientrare in parrocchia la vara di San Gaetano custodita da soggetti la cui appartenenza a Brancaccio era nota a tutti. Altra tagliata di faccia per il distorto senso di rispetto dei mafiosi.

E che dire della prima grandiosa e partecipatissima giornata dal titolo “Brancaccio per la vita” organizzata ad un anno esatto dall’eccidio di Capaci e via D’Amelio? Vi aderirono in tantissimi, soprattutto giovani e bambini. Una giornata piena di vita e di gioia autentica. E delle sue lettere pieno di amore fraterno ai carcerati? Don Pino era malato d’amore, come hanno ben sintetizzato Ficarra e Picone in una riuscita performance che fa ridere e piangere al tempo stesso.

Giuseppe Carini entrò nel programma di protezione nel 1995 a seguito della sua testimonianza resa al magistrato Matassa circa i mandanti e gli esecutori dell’omicidio di Don Puglisi. Di recente Carini ha mostrato il proprio volto in pubblico come forma di protesta rispetto ad uno Stato dal quale si è sentito  abbandonato. Cosa ne pensi Roberto?Rispondo con le parole di Giuseppe Carini: “Sono un testimone di giustizia, un uomo che ha deciso di dare voce alla verità. Un uomo che ha fatto una scelta e da anni ne accetta le conseguenze. A volte però mi chiedo in che Paese viviamo. Sia per la mia storia personale, vuoi perché siciliano, fin da piccolo sono stato abituato a convivere con l’omertà. Quanti  appelli nel corso degli anni abbiamo registrato da parte dei magistrati per rompere quel muro di omertà che contraddistingue la nostra società e di aiutarli ad accertare la verità dei fatti e dei misfatti riconducibili alle organizzazioni mafiose. Io decisi di abbatterlo quel muro. Lo dovevo a padre Puglisi. Lo dovevo a me stesso. E testimoniai, ma quante complicazioni quando fui inserito nel programma speciale di protezione”.

Giuseppe Carini nei mesi scorsi, per disperazione, mentre si trovava a Palermo ed era senza scorta, decise di mostrare il suo volto. Un gesto estremo dettato da profonda sofferenza. Una sofferenza condivisa da tutti gli altri testimoni di giustizia, un’ottantina in tutta Italia, che pagano un prezzo altissimo sol perché hanno deciso di stare dalla parte giusta, dalla parte dello Stato. Ecco perché lo Stato che è fatto da uomini e donne, e non è un’entità astratta, ha il dovere primario, sia morale che civile, di tutelare questi testimoni che con le loro scelte di vita rendono migliore questa nostra travagliata terra.

di Antonella Marchisella