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(foto fonte web)
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La giustizia e l’ombra “dell’incapacità”

Una vicenda, quella di Adam Kabobo e del suo tragico gesto, che spaventa e al tempo stesso attrae investigatori e studiosi della mente umana e in grado di attivare quei fantasmi che stanno e nei precipizi della psiche dell’uomo.

Il fatto

Difficile dimenticarci di quel sabato 11 maggio 2013, quando nel quartiere Niguarda, nella periferia nord di Milano, tre persone, Alessandro Carolè, Daniele Carella ed Ermanno Masini morivano uccisi a picconate per mano del ghanese Adam Kabobo.

La domanda cui sono stati a chiamati a rispondere i periti psichiatri, è la stessa che si è posto ognuno di noi: si è trattato della lucida azione assassina di un uomo, oppure follia? Dall’esito delle perizie dipende il futuro di Kabobo. Fine pena mai oppure non imputabilità per l’incapacità d’intendere e volere?

Un tragico interrogativo

Ancor prima di stabilire se Kabobo, nel momento della commissione dell’atto, fosse o meno nel pieno delle sue facoltà mentali,  un’altra domanda è in attesa di risposta, una domanda cui nessuno, ad oggi, ha saputo o voluto dare una risposta, e cioè: prima di quella tragica mattina, chi è stato Adam Kabobo?

Chi è Kabobo

Poco si conosce della sua storia, e lui, Kabobo, nella sua cella di isolamento, si è chiuso nel silenzio.

I documenti, tra i quali il permesso di soggiorno, consentono di tracciare solo gli ultimi spostamenti del ghanese. Del passato meno recente, si sa che ha attraversato l’Africa e si è sostato in Libia, e forse lì potremmo pensare che abbia potuto aver patito gli orrori dei campi di concentramento di Gheddafi.

Nemmeno dalle numerose comunità ghanesi della Lombardia sono emersi elementi che svelino la storia di Kabobo.

Dunque, per sapere qualcosa in più su  Kabobo al momento ci si deve accontentare di conoscere la  quotidianità della sua detenzione. In cella Kabobo è silenzioso, vorace nel mangiare e avido nel dissetarsi, è isolato e chiuso in se stesso perfino nell’ora d’aria, utilizza solo poche essenziali parole di italiano per comunicare con le Guardie e gli Operatori penitenziari, limitando la conversazione a frasi del tipo: «Non mi serve niente». Parla anche un pò, in maniera zoppicante, l’inglese lingua istituzionale del Ghana.

I primi responsi a fine estate

È una sfida ardua quella cui sono chiamati a rispondere i periti. Tre mesi  di tempo, sono quelli che ha concesso la Procura di Milano, per  le valutazioni dei periti.  I periti sono quattro: due nominati dalla Procura, Isabella Merzagora e Ambrogio Pennati, uno, Edoardo Re, scelto dalla difesa e uno, Massimo Picozzi, chiamato dalla famiglia Carella.

Una definizione di perizia

La Giurisprudenza ci insegna: «La perizia, intesa come “mezzo di prova”, deve essere basata su ragionamenti scientifici adeguatamente motivati e conclusivi, sulla scorta di elementi storico-clinici ed obiettivi, raccolti con cura e metodo e discussi con esplicito riferimento alle esigenze giuridiche della particolare situazione giudiziale».

La perizia è pertanto lo strumento attraverso il quale il mondo fisico ed oggettivo, la scienza, l’interpretazione, la valutazione e l’idea penetrano nel processo ed impediscono che questo diventi esclusivamente una costruzione logico-intuitiva, regolata dalla norma, ma totalmente sganciata dalla realtà nel suo aspetto dinamico e creativo.  Perciò, a chi opera come perito, si richiede rigore ed onesta concretezza scientifica. Perché l’errore, sempre possibile, deve essere mitigato, comunque, dalla consapevolezza assoluta della ragionevolezza scientificamente condivisa delle conclusioni ritenute possibili o necessarie.

di Francesca De Rinaldis