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(foto fonte web)
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Recentemente ci sono state in Italia tre grandi imprese che hanno fatto parlare molto di sè: la Fiat, l’Ilva e l’Alcoa. Quello che hanno in comune queste aziende è che rischiano o stanno per chiudere alcuni stabilimenti, facendo perdere complessivamente migliaia e migliaia di posti di lavoro. Di queste tre aziende, una è sempre stata privata (ma ha ricevuto negli anni ingentissimi finanziamenti da parte dello Stato), ossia la Fiat. Le altre due, l’Ilva e l’Alcoa – intesi gli stabilimenti di Taranto e di Portovesme in Sardegna- erano pubblici ma sono stati privatizzati negli anni ’90.

Per lo stabilimento dell’Alcoa di Portovesme la sorte è già segnata: l’azienda americana ha deciso di trasferire i suoi impianti in Arabia Saudita. Migliaia di lavoratori (e le rispettive famiglie) verranno ridotti in condizioni disperate, dato che in Sardegna trovare un altro lavoro sarà impresa ardua. Senza considerare poi le ricadute sull’economia locale, dall’indotto, agli esercizi commerciali della zona, che vedranno ovviamente diminuire pesantemente i loro clienti. Ma la legge del cosiddetto “libero mercato” è questa: o profitto o a casa.

Sull’Ilva di Taranto la situazione è un po’ diversa, ma alla fine neanche poi tanto. Gli impianti sono stati sigillati dal Tribunale, dato che inquinavano. E non saranno riaperti finchè non sarà realizzato un adeguato piano di risanamento di questi. Cosa che finora la famiglia Riva, proprietaria degli stabilimenti, non ha fatto.

D’altronde per il privato che pensa ai profitti, intervenire per tutelare la salute dei suoi lavoratori, nonchè dei cittadini, costituisce una spesa, che difficilmente si vorrà accollare. Anche qui, sono a rischio migliaia di posti di lavoro, con tutto quel che ne seguirà su famiglie dei lavoratori, indotto e economia locale.

Ancora più comica -se non fosse tremendamente drammatica- è la situazione della Fiat. Il delegato amministratore, Sergio Marchionne, dopo che negli anni scorsi ha sfidato il sindacato per imporre condizioni di lavoro anticostituzionali (proibendo, ad esempio, il diritto di sciopero), con la promessa che avrebbe fatto degli investimenti, recentemente ha chiaramente detto che in Italia il mercato sta andando male, lasciando intendere che potrebbe chiudere le fabbriche (poi ha negato di volere andare via dall’Italia).  Intanto, degli investimenti che aveva promesso due anni fa non se ne vede neanche l’ombra.

Nel caso della Fiat, la perdita di posti di lavoro si aggirerebbe sulle decine, se non centinaia di migliaia. Con effetti catastrofici sull’indotto e sull’intera economia italiana.

Le vicende di queste tre grandi aziende (e non sono e non saranno le uniche, in Italia) stanno mettendo sempre più in luce i risultati della gestione privata di settori importanti dell’economia, una volta appartenenti allo Stato (Fiat a parte, anche se lo Stato italiano è stato fin troppo prodigo di finanziamenti nei decenni scorsi).

Gli impianti di Portovesme, in Sardegna, sono stati gestiti da due enti pubblici fino agli anni ’90 (l’Efim e l’Egam, in seguito intervenne anche l’Eni). E funzionava bene. Con la privatizzazione sono passati in mano all’americana Alcoa, che ora li sta chiudendo.

Gli stabilimenti siderurgici di Taranto appartenevano all’Italsider. Poi sono passati, sempre durante l’ondata di privatizzazioni degli anni ’90, al Gruppo Riva. Qui si tratta di fare una scelta. O lasciamo che le grandi aziende di importanza strategica rimangano in mano ai privati oppure resta solamente un’altra soluzione: la nazionalizzazione.

Non è una bestemmia. La Francia e soprattutto la Germania negli ultimi decenni non si sono fatti travolgere dalla furia privatizzatrice che ha imperversato da noi e hanno mantenuto importanti settori industriali e finanche bancari nelle mani dello Stato. Ora funzionano molto meglio che in Italia, dove sono invece stati privatizzati.

di David Insaidi