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 IL CRIMINE VISTO DAL CINEMA

                          recensioni a cura di Giuseppe Pastore

 

La scala a chiocciola (Robert Siodmak, 1945)
genere: Thriller

Un serial killer uccide donne afflitte da gravi menomazioni fisiche o mentali. In un’elegante dimora, l’anziana e malata padrona di casa mette in guardia la governante muta.
Thriller di gran successo all’epoca ma di scarso interesse oggi, vale soprattutto per una certa sagacia nella costruzione della suspence rispettando quasi fedelmente le unità di tempo e di luogo: l’escalation di tensione avviene con misurato ricorso alla colonna sonora e una controllatissima calibrazione degli eventi. D’altra parte, se la protagonista principale (Dorothy McGuire) è priva di favella, i personaggi di contorno sono curiosamente sin troppo verbosi e in breve, invece che inquietare, il film scade in una carrellata illustrativa con dialoghi banalotti e collosi. Comunque un classico del genere “era una notte buia e tempestosa”. Una nomination all’Oscar per la vecchia Ethel Barrymore come attrice non protagonista.

L’altro uomo (Alfred Hitchcock, 1951)
genere: Thriller

Un tennista di buon livello, alle prese con una complicata separazione matrimoniale, incontra in treno un ricco scapestrato che gli propone un piano diabolico: si offre di fargli fuori l’ex moglie se lui, in compenso, gli ucciderà l’odiato padre.
Tratto dall’omonimo romanzo d’esordio di Patricia Highsmith, grande classico firmato Alfred Hitchcock. Tra i suoi film più gotici ed espressionisti, non solo nello stile (nell’intera cinematografia del Maestro non si ricorda una scena più concitata e mozzafiato di quella finale sulla giostra) ma anche per una certa bizzarra combinazione di umorismo e grottesco che fa capolino anche nelle scene più drammatiche (l’incontro col bambino col palloncino al luna park è un frammento degno di Fritz Lang). Per il resto è un compendio hitchcockiano di figure e temi ricorrenti, dal topos del doppio alla presenza del treno, affrontati con ritmo serratissimo e dialoghi sopra le righe (per i quali vanno forse riconosciuti dei meriti a Raymond Chandler, il grande autore di gialli e polizieschi che collaborò alla sceneggiatura ma fu comunque silurato da Hitchcock a metà realizzazione). Il miglior film nonché l’ultimo di Robert Walker, eccellente villain atteso nel 1951, a soli 32 anni, a una morte per overdose su cui non fu mai fatta piena luce. Alla figlia Patricia Hitchcock spetta la parte della futura cognata impicciona. Il McGuffin di turno è un accendino smarrito dal tennista a inizio film, protagonista di un incalzante montaggio alternato verso la fine. Conosciuto anche come “Delitto per delitto”.

L’uomo che sapeva troppo (Alfred Hitchcock, 1956)
genere: Thriller

Una coppia – lui medico, lei ex cantante – americana in vacanza in Marocco rimane coinvolta in un intrigo internazionale; il rapimento del loro unico figlio li costringe a volare a Londra.
Immarcescibile classico hitchcockiano collocato proprio a metà dei suoi magnifici anni ’50; sagace, umoristico, sorprendente, ricco di invenzioni fulminanti; un gioiellino. Remake – riuscito meglio – di un suo film omonimo, girato in Inghilterra nel 1934. Come al solito, accanto alla trama tradizionale si dipanano altre tracce e suggestioni: il ruolo quietamente predominante della bionda e rassicurante Doris Day all’interno del ménage di coppia e una silente stoccata alla religione (Edward Drayton, il “cattivo”, usa come copertura l’attività di pastore protestante). Lo si ricorda per due scene memorabili, scandite dalla musica: i dodici minuti senza dialogo dell’attentato alla Albert Hall (il direttore d’orchestra è nient’altri che Bernard Herrmann in persona), capolavoro di montaggio, e l’esecuzione al piano di “Que sera, sera” all’ambasciata; non male anche il subitaneo epilogo. Tutto l’intreccio di spie e servizi segreti è qui, ancora più che nel successivo “North by Northwest”, un gigantesco MacGuffin per aggiornare i temi più cari al regista: l’irruzione dell’imprevisto nella vita dell’uomo comune, le sue reazioni, le reazioni del pubblico che in lui si rispecchia. Obiettivo riuscito, naturalmente.

Testimone d’accusa (Billy Wilder, 1957)
genere: Giallo

Un vecchio avvocato con problemi di salute accetta di tornare al lavoro per difendere un uomo accusato dell’omicidio di una ricca zitella, credendolo innocente contro ogni evidenza.
Dal racconto omonimo (e poi pièce teatrale di successo) di Agatha Christie, uno dei grandi classici del cinema americano tribunalizio. Come non di rado avviene in un film di Billy Wilder, c’è tutto e tutto è al posto giusto: ritmo serrato, colpi di scena, questione morale, sense of humour, l’innata dote di esaltare la drammaticità della storia e dei personaggi comprimendola in pochi spazi angusti (flashback a parte, tutto si svolge in due luoghi: casa di Robarts e tribunale) ed en passant grandi interpretazioni (sontuosi Laughton e Marlene Dietrich). Diventa inutile e noioso solamente recensire film come questo, perché proprio non c’è niente che non vada. Ultimo film di Tyrone Power, due anni prima di morire d’infarto sul set di “Salomone e la regina di Saba”.

La donna che visse due volte (Alfred Hitchcock, 1958)
genere: Thriller

Un detective in pensione indaga in privato sulla moglie di un suo amico, affetta da turbe psichiche che la spingono a rivivere il passato di una sua antenata morta suicida settant’anni prima.
Dal romanzo di Pierre Boileau e Robert Narcejac “D’entre les morts”. Per molti, il capolavoro mancato di Alfred Hitchcock; sicuramente, a suo modo, uno dei suoi film più grandi, imperfetti e “malati”. Melodramma contemplativo che nella seconda parte assume una malsanità obiettivamente senza pari, e rappresenta il tentativo più ardito del regista di uscire dal seminato e dagli schemi di regista da thriller commerciali. Foce senza dighe di tutte le perversioni di Hitchcock, anche e soprattutto sessuali; indiscutibile la carica erotica delle schermaglie tra Scottie e Madeleine/Judy. A causa della ben nota preferenza, da parte di Hitch, della suspence sull’effetto sorpresa, nell’adattamento de “La donna che visse due volte” si trova (parere personale) un grave errore, forse il più grave della sua intera filmografia: lo sciagurato flashback rivelatore che a mezz’ora dalla fine depotenzia enormemente gran parte delle scene che seguono, compreso il finale raggelante e – questo sì – indimenticabilmente noir. Ma non possono passare sotto traccia i meriti e i pregi del film, primo tra tutti l’aver preso una Kim Novak che per tutto il film non palesa mai alcuna capacità recitativa, e nonostante ciò averle confezionato addosso un personaggio memorabile. E poi ancora: la geniale rappresentazione della vertigine (carrello indietro più zoom avanti), utilizzata ancora oggi; l’incubo policromatico addirittura con pionieristici inserti animati (!); i titoli di Saul Bass; le sequenze dei pedinamenti, lunghe oltre ogni convenzione, in cui la musica di Herrmann – ispirata a “Tristano e Isotta” di Wagner – si fa terzo personaggio. Incompreso, fu un mezzo flop per critica e pubblico.

Il figlio di Giuda (Richard Brooks, 1960)
genere: Politico

America, anni ’20: il caso fa cambiare vita a un ciarliero piazzista che, attratto da una sua adepta, si unisce alla setta religiosa dei Revivalisti diventandone in breve, grazie alle sue capacità oratorie, ideologo e trascinatore.
Dall’omonimo romanzo di Sinclair Lewis. Con grande anticipo sui tempi, il primo film politico del cinema americano anni ’60: lo sguardo al passato (il decennio proibizionista) è stratagemma per riflessioni senza tempo sul controverso rapporto che lega la religione alla società di massa, su come una manipola l’altra e si fa a sua volta manipolare, smarrendo inesorabilmente il suo obiettivo originario per la mondanissima difesa del proprio status quo. Prima parte di impervia interpretazione per i non-americani, poi cresce fino a diventare un apologo di attualità quasi contemporanea (benché abbia ormai quasi cinquant’anni) sull’indecifrabile spiritualità della parte più nascosta e invisibile della popolazione americana (non a caso il film e il romanzo, come molte altre opere di Lewis, sono ambientati nell’inesistente stato del Winnemac). 3 Oscar, in vari modi tutti meritati, per il gigione Burt Lancaster (di un soffio meglio di Jack Lemmon ne “L’appartamento”), per la meretrice Shirley Jones e per l’importante sceneggiatura dello stesso Richard Brooks.

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