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La talpa (Tomas Alfredson, 2011)
genere: Thriller

Londra 1973: tra gli agenti segreti al servizio di Sua Maestà c’è un infiltrato al soldo del KGB.
Non è facile accostarsi alla recensione di “Tinker Tailor Soldier Spy” (meglio il bel titolo originale, omonimo del famoso romanzo di John Le Carré che diede origine nel 1979 anche a una mini-serie televisiva con Alec Guinness come protagonista). Il motivo è presto detto: è un film pressoché incomprensibile, densissimo di nomi luoghi fatti e ulteriormente complicato da una struttura a flashback che evita ellitticamente l’azione e si concentra praticamente solo sui dialoghi. Magari potete prenderlo come una sfida con voi stessi: se riuscirete a stargli dietro, sarete pronti per una carriera da provetti giallisti. E se andrà male, non è detto che avrete buttato due ore: a noi, dopo aver smarrito il filo del discorso dopo poco più di mezz’ora e trovandoci perciò costretti a trovare un motivo d’interesse nei successivi 90 minuti, è capitato di scoprire un grande regista. Lo svedese Tomas Alfredson, già rivelatosi nel 2008 col bellissimo horror “Lasciami entrare”, ha una personalità sconosciuta alla quasi totalità dei registi americani cosiddetti “di genere”, specializzati cioé in thriller e polizieschi spesso altrettanto complicati ma con molto meno arrosto. Alfredson non sbaglia una scena, non banalizza mai un’inquadratura, non trascura alcun dettaglio; non è di quelli che si appoggiano passivamente al copione e agli attori, ma ne esalta le qualità immergendoli in un’atmosfera rarefatta, fuori dal tempo (anche se la ricostruzione d’epoca è impeccabile). Sa andare oltre la semplice costruzione di un viluppo inestricabile e invita a dirigere lo sguardo in tutte le direzioni, esibendosi in lampi di estro registico spesso sorprendenti (la scena finale). Ha 46 anni e il talento per reggere l’urto di una carriera mainstream. Da buoni cinefili annotiamo infine la fresca nomination agli Oscar per il buon vecchio Gary Oldman – incredibile ma vero, è la prima della sua carriera.

Le idi di marzo (George Clooney, 2011)
genere: Politico

Scontro di coltelli tra opposte fazioni durante le Primarie del Partito Democratico alla vigilia del voto decisivo in Ohio.
Dopo l’intermezzo di “Leatherheads” (2007, in italiano “In amore niente regole”), George Clooney torna al cinema civile a sei anni dall’ottimo “Good night, and good luck”. Ambientato per forza di cose in un’America parallela in cui Obama non è mai arrivato alla Casa Bianca e i Democratici si scannano per decidere il loro candidato alle Presidenziali 2012, è la raffinata ed energica messa in scena da sinistra di un’America disillusa e problematica, senza più fiducia nelle sue istituzioni, riposseduta da quella paranoia che contraddistingueva i thriller politici anni ’70. Niente di particolarmente originale o iconoclasta, ma tutto è espresso con lucidità espositiva e ritmo ammirevoli. “Le idi di marzo” fila via come un treno, non ha note false né momenti sottotono, ha la solidità e il mestiere delle opere più mature e stratificate di un Pollack o un Pakula. Nella dissezione senza sconti del proprio partito di riferimento, Clooney (anche co-sceneggiatore con Grant Heslov e Beau Willimon) non spreca una parola né uno sguardo, affidandosi molto agli attori (tutti bravissimi) ma imponendosi allo stesso tempo con uno stile asciutto ed elegante come un vestito su misura, e mantenendo uno stile e un aplomb da manuale dall’inizio alla fine: ne sono esempio i battibecchi da screwball comedy tra Gosling e Evan Rachel Wood o lo scontro tra il governatore e il suo spin doctor nella penombra della cucina di un bar, modelli di recitazione e scrittura controllata. Ryan Gosling, tra le rivelazioni del 2011, è glorificato con un personaggio di straordinaria finezza e complessità. Peccato per il finale, debole e statico, che un po’ rovina il divertimento e abbassa il voto. Curiosità: lo slogan della campagna di Mike Morris, “I like Mike”, rievoca il repubblicano “I like Ike” inventato nel 1952 per il generale Dwight Eisenhower.

Bed time (Jaume Balaguerò, 2012)
genere: Thriller

Cesar, infelice e solo al mondo, è l’inquietante portiere di un condominio in città: conosce i segreti di tutti gli inquilini e ne spia personalmente qualcuno, a cominciare dalla bella e spensierata Clara da cui è ossessionato, invidiandone la gioia di vivere e il perenne buon umore. Come fare a toglierle quel sorriso dalla faccia?
Sesto film del 43enne catalano Jaume Balagueró, che si è ormai costruito una solida fama presso gli appassionati dei thriller e degli horror meno truculenti e più psicologici. Questo “Mientras duermes” continua a percorrere il solco dei precedenti lavori, muovendosi su un percorso classico, ricorrente e un po’ risaputo (un portinaio psicopatico e stalker che sviluppa una relazione ossessiva con una sua inquilina – vi ricorda qualcosa?) con perizia e mestiere innegabili, senza mai “svaccare” né concedere al pubblico facili emozioni. Balagueró sa far aspettare i suoi spettatori, intrattenendoli con descrizioni convincenti e perfino ironiche dei personaggi e dell’ambiente in cui si muovono, prima di piazzare l’affondo con grazia e decisione da sciabolatore; e, quel che è più importante, non asseconda i pensieri e le speranze del pubblico, ma – pur mantenendo uno stile classico e quasi cristallino, senz’alcun svolazzo o barocchismo tipicamente ispanici – lo spiazza e lo gela con uno dei finali più disturbanti degli ultimi tempi. Il cast è composto da attori praticamente sconosciuti al di là dei confini spagnoli, ma è ben diretto e regge benissimo la scena a cominciare da Luis Tosar, novello Anthony Perkins; il resto lo fanno la regia e la sceneggiatura di Alberto Marini, entrambe “invisibili” nel senso migliore del termine. La distribuzione italiana che traduce in inglese (“Bed time”!) un titolo spagnolo si distingue per idiozia come spesso accade.

 

 

 

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