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Il divo (Paolo Sorrentino, 2008)
genere: Politico

All’inizio degli anni ’90 Giulio Andreotti ottiene il settimo mandato alla presidenza del Consiglio e cova in gran segreto la speranza di salire al Quirinale.
Paolo Sorrentino fa due, tre, tanti passi avanti: d’ora in poi non sarà più la brillante e piaciona promessa de “Le conseguenze dell’amore”, ma l’artista che è brillantemente riuscito nell’impresa di regalare a Giulio Andreotti l’immortalità artistica (quella politica già c’è, e sospettiamo anche quella fisica); un’immortalità che tuttavia non si preoccupa minimamente di scalfire l’enigma-Andreotti, anzi lo rinfocola alimentandolo con le proverbiali battute del protagonista (moltissime delle quali autentiche, tra cui quella raggelante sul fioretto per la liberazione di Moro). Per questo film, indubbiamente politico e di conseguenza portatore insieme a “Gomorra” di un vento nuovo e benvenuto nell’afoso panorama nostrano, sono stati scomodati illustri antenati, Petri su tutti; ed in effetti pare di scorgere lo stesso gusto per il grottesco sopra le righe e per la metafora (lo skateboard che irrompe a Montecitorio, geniale presagio). Il momento più alto e potente del film è tuttavia ripulito da ogni figura retorica e discorso indiretto: lo spietato mea culpa a cui Andreotti si sottopone arriva a squarciare a metà il velo della doppiezza e dell’ambiguità e scuote il pubblico come un urlo liberatorio. Un film che rifugge le banalità e le convenzioni da biopic per una narrazione a balzi e scatti fortemente irregolare; impossibile del resto trarre un feuilleton ottocentesco dalla vita grigia e impiegatizia di Andreotti. La decisiva collaborazione di Giuseppe D’Avanzo rende altrettanto solide e potenti le ricostruzioni cronachistiche sulle testimonianze mafiose e le eventuali responsabilità negli omicidi illustri dell’epoca della strategia della tensione. Tecnicamente un capolavoro, anche troppo: Sorrentino gira da dio e ci tiene da morire a darlo a vedere, caricando d’enfasi e importanza ogni dettaglio. Straordinari titoli di testa e classico stridore audio-visivo sorrentiniano, provocato stavolta dalla martellante “Toop Toop” di Cassius. Toni Servillo si eleva oltre la stratosfera (l’essenza della sua grande prova d’attore sta nel sorrisino del tutto naturale con cui reagisce alla battuta di Grillo in tv), ma il resto del cast segue a breve distanza: si citino il Cirino Pomicino del sorprendente Carlo Buccirosso e la Lidia di Anna Bonaiuto, magnifica co-protagonista di quello che è il momento più intimo, crepuscolare e perciò surreale del film (qual è? Chi l’ha visto ha già capito). A parte i soliti virtuosismi che stanno ormai diventando marchio di fabbrica sempre più tollerabile, è così che si fa cinema nel ventunesimo secolo. Un cinema a cui l’Italia non è ancora pronta.

The International (Tom Tykwer, 2009)
genere: Thriller

L’agente inglese Louis Salinger, in forza all’Interpol, vuole a tutti i costi sgominare l’organizzazione a delinquere che si nasconde dietro la rispettabile facciata della IBBC, una banca internazionale sospettata tra le altre cose di traffico d’armi con il Medio Oriente. Ad aiutarlo nel suo arduo compito c’è Eleanor Whitman, assistente del procuratore distrettuale di Manhattan.
Lo spy-movie ai tempi della crisi: The International si attesta sui non eccitantissimi binari di una rispettabile medietà, mantenuta grossomodo in tutte e due le ore di durata (con un’unica eccezione: le grand-guignolesche scariche di mitraglietta al Museo Guggenheim), adattando i classici stereotipi del genere all’attualità socio-politica: così il ruolo dell’ineffabile Spectre è stato preso da una tentacolare Banca Mondiale con sede a Lussemburgo, di cui poco è chiaro e pochissimo lo diventerà. Il crisis-movie che – prendendo coscienza dello stato dei fatti – è il primo film commerciale hollywoodiano a mettere nel mirino l’alta finanza, accusandola di essere il nuovo tiranno planetario, si snoda come molti suoi contemporanei in un dedalo di spostamenti, città, quartieri generali ed eminenze grigie all’insegna del “follow the money”; ma per ricreare l’atmosfera paranoica con cui si vorrebbe rendere omaggio ai thriller nixoniani degli anni ’70 non bastano la barba lunga e problematica di Clive Owen né la pleonastica partecipazione (poco) straordinaria di una Naomi Watts in libera uscita dopo il parto. E’ evidente l’intenzione di far uscire la materia del racconto dalle pagine della finzione per farla diventare a buon diritto spunto di discussione reale; quel che manca è il carisma autoriale, senza cui tutto si riduce al solito flipper iperattivo. La sceneggiatura del giovane californiano Eric Warren Singer, per quanto caotica e poco propensa alla riflessione, ha però il pregio di concludersi in modo forte e impopolare, facendo di Louis Salinger un eroe solitario e ancora più indifeso, alla maniera di Robert Redford ne I tre giorni del condor. Nel cast multi-nazionale, tra il vecchio Armin Mueller-Stahl e il danese Ulrich Thomsen (visto qualche tempo fa ne Le mele di Adamo), doverosa citazione per Luca Barbareschi nel ruolo di Umberto Calvini, politico italiano con ambizioni da primo ministro, a capo di un partito di nome “Futuro Italiano” (notare le iniziali).

Buried (Rodrigo Cortes, 2010)
genere: Thriller

Un autotrasportatore americano si risveglia in una bara, sepolto in un punto imprecisato del deserto iracheno: accanto a lui, solo un accendino zippo e un telefonino di cui ignora la provenienza. Come c’è finito? Chi ce l’ha messo? E soprattutto, come uscirne?
Il più efficace incubo cinematografico degli ultimi tempi porta la firma dello spagnolo Rodrigo Cortes e del suo connazionale Chris Sparling, autore della sceneggiatura che ha stregato il Sundance e si è imposta come uno dei fenomeni degli ultimi dodici mesi. Al di là delle ovvie considerazioni sul virtuosismo di una regia e di un’opera che regge per 94 minuti con un solo attore e un set ridotto a una scatola di due metri per uno, “Buried” è uno sfacciato guanto di sfida alle leggi dello spettacolo, come tanti ne sono stati lanciati nei decenni da registi anche più illustri (per limitarci alla superficie, Hitchcock si cimentò per due volte in imprese simili, con “Nodo alla gola” e l’ancora più estremo “Prigionieri dell’oceano”). La sfida di Paul Conroy va di pari passo con quella di Cortes, vinta in extremis grazie a un finale pazzesco a cui sarebbe criminale solo fare il minimo riferimento. Prima, però, la ridda infernale di telefonate, richieste d’aiuto, imprecazioni e sudore stufa dopo un’ora e non si può impedire allo spettatore di scalpitare per arrivare alla conclusione della vicenda. E’ comunque significativo come, pur in un film modernissimo e per certi versi rivoluzionario come questo, si faccia ricorso ai vecchi trucchetti da sceneggiatura classica, ben ricca di diversivi ed elementi distrattori (il serpente, la struggente telefonata alla madre). Nonostante qualche sbadiglio di troppo, dovuto all’inazione, bisogna ammettere che il copione non presenta una sola smagliatura. Un grande piccolo film.

L’uomo nell’ombra (Roman Polanski, 2010)
genere: Thriller

Uno scrittore di terz’ordine viene arruolato dallo staff dell’ex primo ministro britannico Adam Lang per scriverne come ghost writer l’autobiografia, dopo che il precedente autore è morto in circostanze misteriose. E in effetti, chi è davvero Adam Lang?
Roman Polanski e il thriller hitchcockiano, un connubio tra i più classici e ripetuti del cinema mondiale degli ultimi quarant’anni. “L’uomo nell’ombra” (ma perchè non mantenere una volta tanto il titolo originale, “The Ghost Writer”, termine ormai di uso comune anche nella nostra lingua?) è un adattamento di un romanzo di Robert Harris che non aggiunge nulla alla produzione del regista parigino, sempre alle prese con le sue paranoie complottiste (rivolte sempre più miratamente all’amata-odiata America), con le sue gocce di surrealtà (il GPS) in una solida impalcatura da film di spionaggio anni ’70, con il suo tema del passato che ritorna ossessivamente, con il suo stillicidio di indizi che conducono solo a un indizio più grande, in un meccanismo di scatole cinesi da mandare infine gustosamente a scatafascio in tre scene. Repetita iuvant: come a Hitchcock della trama non importava mai un granché, Polanski non sembra mai nutrire grossa simpatia per le vicende del suo ombroso scribacchino (Ewan McGregor monocorde come ogni buon attore polanskiano, e più sono illustri più devono essere inerti, dall’Harrison Ford di “Frantic” al Johnny Depp de “La nona porta”. Solo Jack Nicholson fu refrattario alla regola). Più interessante apprezzare l’abilità, sempre immutata, con cui il regista confeziona un film “di maniera” eppure squisitamente impeccabile, sia nel ritmo che nelle connessioni logiche tra scena e scena, rese senza mai una parola di troppo. Trattasi dunque di innocuo passatempo da arresti domiciliari (poi revocati)? Anche se fosse un Polanski incarognito e petulante, rimarrebbe sempre un Polanski.

Shutter Island (Martin Scorsese, 2010)
genere: Thriller

Il detective Teddy Daniels sbarca a Shutter Island per indagare sulla scomparsa misteriosa e inspiegabile di una paziente del locale manicomio criminale. Da qui in poi, le cose si complicano.
Dal romanzo di Dennis Lehane, adattato da Laeta Kalogridis (sceneggiatrice di “Alexander” di Oliver Stone e produttrice esecutiva di “Avatar”). Breve preambolo: nessuno mai dovrebbe leggere qualsiasi recensione prima di qualsiasi film (se lo fa, sono problemi suoi); questo è ancor più vero per film come “Shutter Island”, poiché ogni discorso su di esso, anche breve, non può non prescindere da alcuni riferimenti alla trama. Eppure “Shutter Island” ha poco da spartire con i thriller propriamente detti, perché paradossalmente non finisce ma inizia con la “spiegazione”, con la risoluzione del caso. La scena del dialogo chiarificatore – basso escamotage adoperato da moltissimi gialli di terz’ordine per semplificare, banalizzandola, la comprensione allo spettatore – spalanca qui le porte di un mondo che è poi il consueto universo di paranoie, improvvisi smarrimenti di senso, interruttori che scattano e luci (o fiammiferi) che si spengono. Non c’è nulla di compiacente o peggio ancora di commerciale nell’impalcatura thriller che Scorsese allestisce dal romanzo di Dennis Lehane, nonostante sia come sempre ricca di suggestioni cinefile e auto-citazioni (la mente corre subito a “Cape Fear”, ma in certe atmosfere, in certi anfratti sordidi ci è sembrato persino di sentire l’eco di “Angel Heart” di Alan Parker); essa è necessaria per seminare il dubbio e accompagnare Teddy Daniels nella sua discesa agli inferi (tra l’altro, a ben vedere, gli indizi vengono seminati con abbondanza già dall’inizio), ma nel centro del mirino c’è invece il classico archetipo dell’Uomo scorsesiano, la cui insanità mentale nasconde motivazioni qui più digeribili e assolutorie (vorremmo scrivere rassicuranti, ma ci sembra troppo) che in passato. Il flashback in riva al lago, scena sinceramente agghiacciante, è però un pugno nello stomaco che scoperchia all’improvviso il capientissimo vaso di Pandora ricolmo di sensi di colpa che fin dai tempi di “Mean Streets” fa bella mostra di sé all’ingresso di casa Scorsese. Il bellissimo finale brilla di luce propria perché, pur nella sua fortissima drammaticità, non rinuncia a offrire uno squarcio di ragionevolezza: il personaggio di DiCaprio è un Travis Bickle che fa piazza pulita non degli altri, ma di se stesso.

Millennium – Uomini che odiano le donne (David Fincher, 2011)
genere: Thriller

Svezia: un giornalista economico si dimette dalla direzione del suo periodico dopo essere stato condannato per diffamazione verso un potente finanziere. Per risalire la china accetta di indagare sulla scomparsa della nipote di un ricco imprenditore, avvenuta quarant’anni prima. Nel frattempo, la hacker Lisbeth Salander…
Il grande successo postumo della trilogia “Millennium” a opera dello svedese Stieg Larsson ha già stabilito un piccolo record: in tre anni sono stati già tratti ben due film dal primo capitolo, “The Girl with the Dragon Tattoo” (traduzione italiana un po’ libera ma appropriata, “Uomini che odiano le donne”). Il primo film, diretto da Niels Arden Oplev, era una produzione svedese uscita in Europa nei primi mesi del 2009; ma il pubblico d’oltre oceano, si sa, non guarda nulla che non sia americano, così i produttori statunitensi hanno buon gioco a importare quel che d’interessante viene dal Vecchio Continente. Il remake è stato affidato alle sapienti mani di David Fincher, che da qualche anno ha intrapreso un percorso non troppo lontano da quello di cineasti come Scorsese negli anni ’90, alternando film d’autore a film di cassetta i cui proventi servono a finanziare il successivo film d’autore. “Millennium” – ovviamente – fa parte della seconda categoria: con gioielli come “Seven” e “Zodiac” Fincher ha rifondato il sottogenere “thriller con serial killer” e, nonostante la trasferta svedese, gioca nel suo giardino, inserendo il pilota automatico e impostando la solita infallibile atmosfera specialità-della-casa (fotografia gelida, montaggio serratissimo, musiche in tono di Trent Reznor); si auto-cita per il sollazzo dei fan ed elargisce stille di classe purissima come la scena della tortura con “Orinoco Flow” di Enya in sottofondo. L’operazione è squisitamente commerciale e dunque non c’è da fare troppo i buongustai: il film tiene tutto sommato decorosamente, malgrado la durata extralarge e almeno un grave errore di miscasting (l’aver affidato la parte principale all’oggettivamente scarsissimo Daniel Craig). Rooney Mara rifà con lo stampino il personaggio già nobilitato da Noomi Rapace e insomma tutti vivono felici e contenti, spettatori compresi. Un Fincher minore per esigenze di botteghino (cfr. “Panic Room”, 2002), ma è pur sempre Fincher. Notevolissimi e già cult i titoli di testa: se siete impazienti, potete goderveli nel video qua sotto.

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